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Lettera di odio e amore per Berlino, parla Vincenzo Latronico

L’ultimo libro di Vincenzo Latronico “La chiave di Berlino” (Einaudi) si propone senza alcuna presunzione di diventare un testamento dei nostri tempi
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Se con “Le Perfezioni” (vincitore del premio Mondello 2023 e tradotto in 17 Paesi) il tema generazionale era già presente ma piegato a esigenze narrative, l’ultimo libro di Vincenzo Latronico “La chiave di Berlino” (Einaudi) si propone senza alcuna presunzione di diventare un testamento dei nostri tempi. Almeno di quella generazione under 30: fuori tempo per essere bambini ma ancora troppo giovani per sentirsi adulti. Una terra di mezzo e di nessuno. Berlino diventa il teatro di quelle angosce e speranze, una città mai «piena di vuoti» la definisce Latronico, ma proprio «quel vuoto, quel senso di libertà che cercavano i ventenni di tutto l’Occidente che a partire dagli anni Novanta si sono trasferiti qui. Uno di loro ero io».

Autore e traduttore, Latronico dedica alla città in cui tuttora vive una lettera di odio e amore, i due sentimenti più contrastanti ma vicini che esistano. Ne racconta le contraddizioni, i buchi nella memoria, la capacità attrattiva per giovani frastornati da una crisi economica e sociale senza precedenti che non riguarda soltanto il nostro Paese. Li chiamano expat, una parola che Latronico in parte disprezza «pur non riuscendo a trovare un altro termine così esaustivo. Rappresenta tutti quei giovani che vanno via dalla propria terra magari per esigenze lavorative o anche soltanto per cercare sé stessi, come ho fatto io. Dei privilegiati. Altrimenti li definiremmo immigrati». Nella differenza fra expat e immigrato si cela il peso culturale di questo fenomeno in costante crescita: «Per me sta tutto nella facilità con cui si possono valicare i confini grazie all’Ue, alla moneta unica, ai progetti Erasmus, ai voli low cost. Farlo in passato – come fece mia madre quando si trasferì in Lussemburgo nel 1993 – comportava uno strappo netto che adesso è appena percettibile» osserva lo scrittore romano.

Berlino – le statistiche lo confermano – è stata eletta a terra promessa di questa generazione che può, che non si guarda indietro, che intende mescolarsi sradicando le proprie radici. Nel suo libro Latronico ci arriva un po’ per caso, spinto dalle delusioni che Milano gli aveva regalato. Non è un caso che entrambe le città siano oggetto di studi recentissimi così come di cambi di paradigma nella narrazione: da place to be a semi-inferno. «Una cosa che le rende così simili è purtroppo la speculazione edilizia dilagante. L’idea che con uno stipendio dignitoso non ci si possa permettere una casa, un hobby. Insomma, una vita normale» ci spiega, mentre procede con il suo racconto di fuga e ritorno, rimbalzato fra questi due fuochi.

Quando gli chiediamo se ha rimpianti, la sua risposta è secca: «Certo, sempre. Rimpiango di essere ritornato, di aver lasciato Milano, di non essere andato a Parigi. Penso che sia questa la fiammella che tiene vivi gli expat come me».

di Raffaela Mercurio 

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