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Baudelaire

Baudelaire, maledetto poeta

Il 31 agosto di quasi un secolo e mezzo fa il ‘poeta dell’abisso’, Charles Baudelaire, lasciava per sempre il mondo che aveva provato a sconvolgere

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Baudelaire, maledetto poeta

Il 31 agosto di quasi un secolo e mezzo fa il ‘poeta dell’abisso’, Charles Baudelaire, lasciava per sempre il mondo che aveva provato a sconvolgere

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Baudelaire, maledetto poeta

Il 31 agosto di quasi un secolo e mezzo fa il ‘poeta dell’abisso’, Charles Baudelaire, lasciava per sempre il mondo che aveva provato a sconvolgere

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Il 31 agosto di quasi un secolo e mezzo fa il ‘poeta dell’abisso’, Charles Baudelaire, lasciava per sempre il mondo che aveva provato a sconvolgere

Il 31 agosto di quasi un secolo e mezzo fa il ‘poeta dell’abisso’, Charles Baudelaire, lasciava per sempre il mondo che aveva provato a sconvolgere: quella società sporca e ipocrita con la sua democrazia ancora in progress, l’aristocrazia in fase calante ma sempre arrogante, la borghesia forte, colta ma perbenista in maniera ripugnante. Ci aveva provato con un messaggio chiaro: nel mondo terreno, ogni giorno, bene e male sono impegnati in una danza perenne. Il primo volteggia verso l’alto, l’altro conduce in basso. Il male è più attraente, seducente e per questo sempre da annusare, abbracciare, coccolare, baciare. Non un’operazione mentale ma un’immersione nel reale, nel quotidiano, una scelta di vita poetica con addosso lo spleen, l’osceno, il perituro e la sua sensuale estetica.

Poeta prima ancora di scrivere un verso, ‘maledetto’ prima ancora di raggiungere la maturità giuridica, il giovane Baudelaire solcò il suo primo passo verso la profondità del male recandosi in una casa di piacere: scelse non una prostituta qualsiasi ma la più brutta, la più malnutrita, con uno sguardo che riflettesse un profondo inferno. Si chiamava Sara e da lei ottenne in cambio la prima malattia venerea (nel caso specifico, blenorragia). Amava in maniera ossessiva la madre; odiava il nuovo patrigno, il generale Aupick, espressione di rigidità e indigeribile autoritarismo; si affrettò a dilapidare l’ingente fortuna ereditata dal padre naturale, costringendo i genitori a congelare i beni superstiti con un atto notarile di «incapacità d’agire».

Prima ancora aveva bistrattato studi e austeri percorsi accademici, favorendo bisbocce, alcool, compagnie equivoche e a tariffa fissa, ricevendo dal patrigno la sanzione di un viaggio punitivo verso le Indie. Era il 1841. Il lungo viaggio sulla nave “Paquebot des Mers du Sud” (viaggio che, in verità, Baudelaire troncò dopo solo pochi mesi) fu la sua migliore palestra di poesia. Mutò il suo sguardo, che – rispetto a visioni degradate e stantie – finalmente colse la presenza del colore, del lussureggiante, dell’esotico e del caldo. Vernice nuova per le sue pennellate poetiche che cominciarono piano piano a sgorgare liquide, gonfie di immagini malsane, di decomposizioni ma anche di luce accecante e calore. Scelse un’altra donna, stavolta una vera e propria musa ispiratrice: la bellissima e sensuale Jeanne Duval, la “venere nera”, attrice e danzatrice di sangue haitiano (caraibico), colore bruno della pelle, seni ampi e avvezza anche all’amore mercenario (fu da lei che Baudelaire contrasse la sifilide che vent’anni dopo lo spedì al creatore). La poesia come azione e provocazione, Parigi turbata dal girovagare zoppicante di questo dandy sempre pronto all’insulto, al motto di spirito salace, alcune volte con i capelli colorati di verde, quasi un punk ante litteram. Ispirato da Théophile Gautier, stimolato dall’appassionato stampatore (poi suo editore) Auguste Poulet-Malassis, col suo nome che impregnava di irritazione e sgomento i più importanti circoli letterari parigini. Nel 1857 i tempi erano ormai maturi per il suo opus magnum: la raccolta di poesie “I fiori del male”. Paradiso e Inferno insieme, petali di rose che galleggiano nelle fogne, canto angelico e urlo sgraziato del demonio. Mai prima di Baudelaire l’uomo aveva toccato l’abisso con dei versi poetici. E ancora ci seduce

di McGraffio

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