C’è stata un’altra Cinecittà
Da simbolo della grandezza fascista, fino alle bombe del secondo conflitto mondiale: storia e rinascita di Cinecittà, la “Hollywood del Tevere”
C’è stata un’altra Cinecittà
Da simbolo della grandezza fascista, fino alle bombe del secondo conflitto mondiale: storia e rinascita di Cinecittà, la “Hollywood del Tevere”
C’è stata un’altra Cinecittà
Da simbolo della grandezza fascista, fino alle bombe del secondo conflitto mondiale: storia e rinascita di Cinecittà, la “Hollywood del Tevere”
Da simbolo della grandezza fascista, fino alle bombe del secondo conflitto mondiale: storia e rinascita di Cinecittà, la “Hollywood del Tevere”
Nell’ottobre del 1943 a Roma avviene un furto. Non soltanto di beni materiali, ma soprattutto di parte della cultura e della storia di un popolo e di un Paese. Lo scenario in cui si verifica questo episodio è quello degli studi di Cinecittà, dove le forze di occupazione nazista depredano e rastrellano tutto ciò che riescono a trovare. Qualche giorno dopo ben 16 vagoni merci carichi di attrezzature cinematografiche lasciano l’Italia. Otto di quei treni giungeranno in Germania, l’altra metà verrà invece dirottata presso gli avamposti della Repubblica Sociale.
Quello di Cinecittà, durante il secondo conflitto mondiale, è un destino particolare. Inaugurato nell’aprile del 1937 da Mussolini in persona, il complesso sulla via Tuscolana deve – nelle intenzioni del Duce – divenire la risposta dell’Italia fascista alla grandezza di Hollywood. Consapevole della forza mediatica del cinema e sulla scia di quanto Hitler sta facendo in Germania con le pellicole di propaganda dirette da Leni Riefenstahl, il dittatore italiano auspica che il grande schermo sia uno strumento per esaltare la presunta grandezza del suo regime. Andrà diversamente, perché allo scoppio del conflitto Cinecittà diventa tutt’altro.
La culla del cinema di casa nostra viene infatti prima adibita a campo di concentramento (a seguito del rastrellamento degli ebrei romani) e poi, dopo le razzie compiute dai nazisti, ridotta a un luogo svuotato della propria anima. Situazione che degenera ulteriormente quando, nel gennaio del 1944, i teatri di posa vengono bombardati dagli Alleati.
Sei mesi dopo, la ‘Città del Cinema’ viene requisita dall’Allied Control Commission per garantire l’ospitalità alle migliaia di rifugiati creati dalla guerra. In questa veste Cinecittà si tramuta non solo in uno dei più evidenti simboli del risultato prodotto dalla scellerata accoppiata fra Mussolini e Hitler, ma soprattutto in un luogo di rinascita. All’interno di quelle mura l’umanità riprende infatti silenziosamente a vivere, lontana dall’occhio del mondo. Cinquemila anime – fra cui i figli dei coloni in Libia, gli esuli giuliano-dalmati, molti ebrei di rientro dai campi di concentramento, i sopravvissuti ai bombardamenti di Monte Cassino e della Capitale, oltre ai profughi internazionali – danno così vita fra quelle mura a una comunità unita dalla volontà di superare le tragedie appena trascorse e desiderosa di un nuovo modello di vita.
Quando nel 1950 Giulio Andreotti sancisce la rinascita dei teatri di posa, quei luoghi tornano alla loro funzione originaria. Di lì a poco arriverà la stagione della “Hollywood sul Tevere”, feticcio e manifesto della rinascita del nostro Paese. E proprio il cinema contribuirà a raccontare la parabola di Cinecittà durante la guerra: prima con “Umanità”, diretto nel 1946 dal regista Jack Salvatori (nome d’arte di Giovanni Salvatori Manners), che vede protagonista un medico americano impegnato nell’assistenza degli abitanti di un campo profughi proprio a Cinecittà. Poi, nel 2012, con il docufilm “Profughi a Cinecittà” di Marco Bertozzi, in cui vengono narrati – attraverso le parole degli stessi protagonisti – quei sette anni di vergogna, miseria e tragedia umana che collettivamente volevano essere al tempo stesso ricordati e rimossi.
Ragion per cui, probabilmente, le grandi correnti cinematografiche del dopoguerra (neorealismo in testa) non hanno mai approfondito questa vicenda. Che invece merita di essere ricordata. Ora e sempre.
di Stefano Faina e Silvio Napolitano
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