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La letizia secondo Angelo Branduardi

Dal Cantico delle creature ad oggi la letteratura italiana si è spesso dedicata al concetto di letizia, ripreso nel 2000 da Angelo Branduardi con l’album “L’infinitamente piccolo”
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La letizia secondo Angelo Branduardi

Dal Cantico delle creature ad oggi la letteratura italiana si è spesso dedicata al concetto di letizia, ripreso nel 2000 da Angelo Branduardi con l’album “L’infinitamente piccolo”
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La letizia secondo Angelo Branduardi

Dal Cantico delle creature ad oggi la letteratura italiana si è spesso dedicata al concetto di letizia, ripreso nel 2000 da Angelo Branduardi con l’album “L’infinitamente piccolo”
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Dal Cantico delle creature ad oggi la letteratura italiana si è spesso dedicata al concetto di letizia, ripreso nel 2000 da Angelo Branduardi con l’album “L’infinitamente piccolo”
Se eccettuiamo l’Indovinello veronese, i vari Placiti (tra cui quello capuano: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene…») e la canzone amorosa “Quando eu stava in le tu’ cathene”, comunque sprovvisti di un autore patente, l’origine della letteratura italiana è in un fazzoletto di tempo che va dal 1224 alla morte di san Francesco, avvenuta due anni dopo. Le “Laudes creaturarum” – note come “Cantico delle creature” – sono una prosa ritmica assonanzata composta, quasi in forma di testamento spirituale, dal Poverello di Assisi, che non dimentica di citare i Salmi, il Libro di Daniele e rivela una certa perizia numerologica. Ma più di ogni altra cosa il “Cantico di Frate Sole” è un testo di grande devozione per Dio e per il cosmo, del tutto alieno dal contemptus mundi e, anzi, innamorato della natura e di quanto provenga dalla volontà dell’«Altissimu, onnipotente, bon Signore», persino «sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare». Implicitamente in contrasto con lo spiritualismo cataro (che considerava la materia opera di un funesto demiurgo) e con l’incipiente società mercantile, le “Laudes creaturarum” sono anche un prontuario di interiorità relazionale: indiato, svuotato di sé, l’io lodante prende le giuste misure nel rispettare ciò da cui è circondato, assaporandone la gratuità («Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta»). Essere in comunione con il prossimo («Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore») e con la realtà è un atto politico: se, come suggerisce Paul Claudel nel “Soulier de satin” per bocca di Doña Prouhèze, «dalla parte in cui vi è più gioia è lì che vi è più verità», solo per mezzo della “perfetta letizia” è possibile ottenere la pace universale, perché il soggetto rimpicciolisce le proprie pretese per fare spazio. Ce lo ricorda un album di Angelo Branduardi, pubblicato nel 2000, “L’infinitamente piccolo”, che racconta in musica la vita di Francesco (i testi sono riadattati dalla moglie del cantautore lombardo, Luisa Zappa). Oltre al “Cantico delle creature” – la cui melodia si rifà a un brano tradizionale scozzese del 1841, “The Bonnie Banks o’ Loch Lomond” – il pezzo di punta del disco è “La predica della perfetta letizia”, ricalcato sul celebre passo del capitolo ottavo dei “Fioretti di san Francesco”: «Era il tempo dell’inverno ormai / e Francesco Perugia lasciò. / Con Leone camminava / ed un vento freddo li gelava. / E Francesco nel silenzio / alle spalle di Leone chiamò: / “Può esser santa la tua vita, / sappi che non è la letizia. / Puoi sanare i ciechi e cacciare i demoni, / dare vita ai morti e parole ai muti, / puoi sapere il corso delle stelle, / sappi che non è la letizia”». Qual è allora la letizia, caro Francesco? Dura parola, ma immortale: è povertà di spirito. «Affrontare il male senza mormorare, / con pazienza e gioia saper sopportare, / aver vinto su te stesso: / sappi, questa è la letizia». Di Alberto Fraccacreta

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