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Etta James da “At Last” a “Tell Mama”

La magnifica storia di Jamesetta, diventata poi Etta James, una delle voci più vibranti eppure empatiche della musica internazionale
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Etta James da “At Last” a “Tell Mama”

La magnifica storia di Jamesetta, diventata poi Etta James, una delle voci più vibranti eppure empatiche della musica internazionale
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Etta James da “At Last” a “Tell Mama”

La magnifica storia di Jamesetta, diventata poi Etta James, una delle voci più vibranti eppure empatiche della musica internazionale
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La magnifica storia di Jamesetta, diventata poi Etta James, una delle voci più vibranti eppure empatiche della musica internazionale
Nel coro della chiesa battista St. Paul di Los Angeles – siamo all’incirca nel 1943una bambina di cinque anni canta da solista il gospel come se avesse mixato nella sua voce da contralto l’inquietudine di Billie Holiday e l’irriverenza di Little Richard. La giovane pargoletta, che lascia esterrefatti i fedeli e talvolta si esibisce anche per radio locali, si chiama Jamesetta Hawkins, nata dall’afroamericana Dorothy Hawkins e – probabilmente – dal campione di biliardo Rudolf “Minnesota Fats” Wanderone. In breve tempo, fonda a San Francisco (dopo alcune dolorose vicissitudini familiari) il gruppo doo-wop Creolettes, poi noto come Peaches. Da allora l’adolescente Jamesetta, con un’invidiabile anastrofe pensata dal musicista Johnny Otis, diviene Etta James. In quel periodo incide pezzi come “The Wallflower” e “Good Rockin’ Daddy” (1955), autentici capolavori del rhythm and blues, apre i concerti di Little Richard nel suo tour in giro per gli Usa e condivide con un certo Elvis Presley, da poco passato alla maggiore età, uno spettacolo in un club di Memphis. Il primo album arriva nel 1960 (era nata nel 1938, ha dunque soli ventidue anni): “At Last!” contiene l’omonima canzone (senza punto esclamativo), scritta da Glenn Miller e posizionatasi al secondo posto nella classifica R&B nonché al quarantasettesimo nella Billboard Hot 100. Con “At Last” il successo di Etta supera decisamente i confini nazionali. «Alla fine / il mio amore è arrivato, / i miei giorni solitari sono finiti / e la vita è come una canzone. […] Oh sì, hai sorriso, hai sorriso / e poi l’incantesimo è scoccato. / E qui siamo in Paradiso, / perché sei mio…». Nella celeberrima “Something’s Got a Hold on Me”, incisa nel 1962, ritornano chiari elementi gospel che ibridano lo stile musicale graffiante della James. Siamo già sulla stessa lunghezza d’onda dei maggiori interpreti del soul, da Sam Cooke ad Aretha Franklin e a Otis Redding: blues, jazz e rock’n’roll sono fusi in una brillante e gioiosa mistura, in una libertà irripetibile di incroci sonori. Su queste premesse viene fuori un disco memorabile, il settimo in studio della cantante californiana, “Tell Mama” (1968): dodici brani in cui emerge folgorante e a briglia sciolta la voce ruvida della James. La ballata “I’d Rather Go Blind”, la scanzonata “The Same Rope” o la rockettara “Security”: Etta sembra duellare in potenza e sicurezza con “Aretha Now”, pubblicato nello stesso anno dalla Franklin. Ma non soltanto: anche nei temi brucianti delle rivendicazioni femminili. E così la title-track “Tell Mama” ci mette al corrente di tumultuose esperienze personali: «La ragazza di prima non aveva alcun senso, / non valeva tutto il tempo che hai trascorso. / Aveva un altro uomo che ti ha messo alla porta. / Ora lo stesso uomo indossa i tuoi vestiti. / Lei ti metterebbe in imbarazzo ovunque, / ha fatto sapere a tutti che non le importava. / Dammi la possibilità che ti stavo implorando. / Voglio solo prendermi cura di te. // Di’ a mammina cosa vuoi, / dillo alla mamma, cos’è ciò di cui hai bisogno». Dietro all’apparente subalternità risalta un energico e ironico invito alla resilienza, segnalato dalla performance nervosa, scattante eppure profondamente empatica di Etta James. di Alberto Fraccacreta

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