Robert Capa fu definito “Il migliore fotoreporter di guerra nel mondo”, un’autorità assoluta nel campo degli inviati di guerra. Figure all’epoca leggendarie e in qualche misura romantiche.
Quando all’alba del 6 giugno 1944 sbarcò con la Compagnia “E” delle prime ondate americane sulla spiaggia normanna denominata in codice “Omaha”, Robert Capa tracciò un confine. Un prima e un dopo la descrizione della guerra, con tutto il suo carico di follia, morte, panico. Era già il fotoreporter numero uno al mondo, un’autorità assoluta nel campo degli inviati di guerra – figure all’epoca leggendarie e in qualche misura romantiche, quasi al pari dei grandi scrittori ispirati dai fatti d’arme come Ernest Hemingway – ma con la scelta di mettere concretamente a rischio la propria vita, sbarcando con i soldati americani che si imbatterono nella resistenza tedesca ancora intatta e perfettamente efficiente, Capa aprì gli occhi del mondo su cosa sia realmente il momentum della guerra.
Gli 11 scatti superstiti delle foto di quei minuti spaventosi (non a caso definite le Magnifiche 11, le uniche danneggiate, ma comunque visibili, scampate al clamoroso errore in fase di sviluppo del tecnico della rivista “Life” che rischiò di cancellare uno dei documenti più importanti della storia dell’uomo) non sono né truci né particolarmente violente. Eppure trasmettono ancora oggi, 78 anni dopo, il senso più compiuto di uno dei giorni fondanti del mondo così come lo abbiamo conosciuto. Per noi, generazione fortunata cresciuta senza la guerra, ci sono ovviamente il fungo atomico di Hiroshima, la bambina in fuga dal napalm in Vietnam, il “Falling Man“ dell’11 settembre dalle torri morenti e tanto altro, ma nulla è più ‘guerra’, più spaventosamente percepibile come qualcosa che sarebbe potuto capitare a ciascuno di noi. Sarebbe bastato nascere in un’altra epoca e ad altre latitudini, per essere quei soldati ritratti con l’acqua al petto, mentre cercano di guadagnare la spiaggia sotto il piombo tedesco. Un pugno di immagini per fissare nella storia “il giorno più lungo”, l’assalto fisico alla follia nazifascista che valse la nostra libertà e anche la nostra ricchezza.
Oggi che di Magnifiche 11 ne potremmo avere al cubo, per ogni secondo della criminale guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina, non abbiamo ancora l’immagine che possa descrivere e sintetizzare questo conflitto assurdo, che ha riportato fra noi il concetto di aggressione a uno Stato sovrano in Europa. Alle immagini devastanti di queste ore non possiamo ancora chiedere di storicizzare eventi e responsabilità. È troppo presto, si combatte e non sappiamo per quanto. Si scatta e si filma per documentare, per provare a raccontare ciò che avevamo escluso dal nostro orizzonte mentale. Facciamo ancora troppa fatica davanti a quelle che il grandissimo inviato di guerra del “Corriere della Sera” Ettore Mo definì «le orbite vuote dei palazzi», osservando la distruzione russa – guarda un po’ – della capitale cecena Grozny, il centro che deteneva l’orrido primato della città più devastata, dalla seconda metà del XX secolo sino a oggi. Anzi, sino a ieri e alla tragedia senza fine di Mariupol. Non a caso una mattanza che i russi stanno cercando in tutti modi di negare agli occhi del mondo, perché più che mai ciò che non vediamo non esiste.
Non funzionerà, come non funzionò fra il 1944 e il 1945, quando i nazisti ormai prossimi alla sconfitta cercarono disperatamente di cancellare le prove dei loro crimini contro l’umanità. Uno, cento, mille Robert Capa – certo non tutti destinati all’immortalità garantita dalle Magnifiche 11 – inchioderanno Putin e i suoi sgherri a responsabilità che non scivoleranno via. Non si cancelleranno, come non vollero farsi cancellare quegli 11 scatti che ancora oggi e per sempre sono il D-Day.
di Fulvio Giuliani
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Tag: fotografia, guerra
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