Hadley Freeman protagonista de La Milanesiana a Pavia
Questa sera Hadley Freeman leggerà dal palco dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia un testo inedito
Hadley Freeman protagonista de La Milanesiana a Pavia
Questa sera Hadley Freeman leggerà dal palco dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia un testo inedito
Hadley Freeman protagonista de La Milanesiana a Pavia
Questa sera Hadley Freeman leggerà dal palco dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia un testo inedito
Questa sera alle ore 21.00, presso l’Almo Collegio Borromeo, si terrà un importante appuntamento culturale, nel quadro de La Milanesiana 2025, che vedrà protagoniste alcune tra le voci più significative della letteratura e del giornalismo contemporaneo.

Al centro dell’evento, le letture e gli interventi di due figure di rilievo della scena culturale internazionale:
- Giulia Caminito, vincitrice del Premio Campiello 2021 e considerata una delle autrici più originali e intense della narrativa italiana contemporanea;
- Hadley Freeman, affermata giornalista britannica e autrice di saggi, che ha recentemente pubblicato Brave ragazze. Una storia di anoressia (66thand2nd).
In collegamento video interverrà anche Kamel Daoud, scrittore algerino e vincitore del Premio Goncourt 2024 con il romanzo Urì (in uscita il 17 giugno per La nave di Teseo). Un’occasione preziosa per ascoltare e riflettere sulle parole di autori che, attraverso la narrativa e il giornalismo, interrogano il nostro tempo.
Questo è il testo di Hadley Freeman che verrà letto questa sera in occasione de La Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, presso l’Almo Collegio Borromeo di Pavia.
Non mi sono mai sentita intelligente. Mi duole ammettere che a scuola di solito mi ritrovavo nei gruppi di bambini che erano nella media in matematica e in francese, e mi duole ancora di più dire che all’epoca ho sprecato un sacco di tempo a essere profondamente infelice per questo. Il che, ahimè, sembrava solo confermare la mia mediocrità.
Ma la bambina che ero credeva di dover essere intelligente, perché non avevo nient’altro da offrire. A quei tempi, e forse anche oggi è così, a scuola avevi quattro possibilità: essere bravo nello sport, essere popolare, essere intelligente o essere nella massa di anonimi e senza volto che nessuno nota, a cui nessuno tiene, e che nessuno ricorderà quando tornerai alla festa per i dieci anni dalla maturità, e tutti i bambini popolari, sportivi e intelligenti, i cui nomi ti si sono impressi per sempre nel cervello, ti scambieranno per un cameriere Quella sorte mi intimoriva, ma ero troppo scoordinata per essere sportiva e troppo ansiosa per diventare popolare. L’unica cosa che avrebbe potuto salvarmi era l’intelligenza. Così a 13 anni decisi che sarei diventata intelligente.
Sembra assurdo oggi pensare a una cosa del genere, nell’epoca degli influencer su Instagram e di Donald Trump, ma nella New York degli anni ottanta, il tempo e l’epoca in cui sono cresciuta, essere intelligenti era considerato qualcosa a cui aspirare. Giornalisti del New Yorker – come Calvin Trillin, Roger Angell, Janet Malcolm – erano leggende locali e la televisione proponeva dibattiti tra persone del calibro di Noam Chomsky, Toni Morrison, Barbara Ehrenreich e Cornel West, solo per il gusto di far ascoltare agli spettatori persone intelligenti. All’epoca si poteva descrivere una persona come “un intellettuale pubblico” e, in America, questo provocava un fischio di grande ammirazione e approvazione. Oggi, nel migliore dei casi, ti risponderebbero: “Un che?” o forse “Torna in Francia, nerd”. Tempi diversi. Quando ripenso alla mia infanzia a Manhattan, negli anni ottanta, mi vedo come una comparsa in un film di Woody Allen: una bambina circondata da adulti che parlano tutti di cose intelligenti, tipo l’ultima opera al Lincoln Center e le udienze sullo scandalo Iran-Contra. Davvero, voler essere intelligente era un sogno del tutto ragionevole, per me.
Anche se non proprio realizzabile.
All’inizio finsi di parlare perfettamente il francese. “Ma, aspetta un attimo!” staranno dicendo i più attenti tra voi. “Non avevi detto che facevi parte di quel gruppo di bambini nella media in francese?” Un mero dettaglio, bien sûr! Ma sapete com’è dopo le vacanze estive: ci sono bambini che tornano a scuola di colpo più alti di dieci centimetri? O con i capelli corti? O già entrati nella pubertà? Avevo deciso che la stessa cosa poteva accadere a me, ma con il francese: improvvisamente sarei stata in grado di parlarlo. E così, nell’autunno del 1991, tornai a scuola con un accento francese leggero ma inequivocabile. E non solo: avevo dimenticato le parole inglesi di cose come “nonna” e “trucco” e di qualsiasi altra di cui conoscessi il vocabolo francese. Ogni volta che chiedevo ai miei amici, sempre più perplessi, “Com’ si dice ‘le stylo’?”, mi sentivo più intelligente del 15%. È possibile che mi sia spinta un po’ oltre e che avrei dovuto attenermi al mio piano originale di “essere improvvisamente capace di parlare francese” piuttosto che “essere improvvisamente diventata francese al cento per cento”. Ma a volte bisogna seguire l’istinto e vedere dove ti porta il momento.
Purtroppo il momento mi portò dritta alla lezione di francese, dove individuai tardivamente il problema principale del mio piano: avere un accento francese non equivale a saper parlare francese. E per quanto fossi bravissima a dire “Bof”, ancora non capivo i verbi riflessivi negativi. Risultato, la mia francesità, ossia il mio accento francese, durò solo mezza giornata e poi tornai a essere un’americana media. I miei amici, con una gentilezza sinceramente soprannaturale, non parlarono mai di questo breve episodio.
Va bene, non sapevo parlare francese, ma sapevo parlare inglese, no? Così, con una logica ferrea, decisi di fingere di aver letto libri che chiaramente non avevo letto: Guerra e pace, Madame Bovary, Casa desolata. Forse alcuni tredicenni sono in grado di leggere i romanzieri russi. Ma io e il mio cervello di tredicenne media preferivamo i libri di Agatha Christie. Ciononostante, iniziai a prendere dalla biblioteca della scuola libri scritti da persone con nomi che sembravano avere molte V e J in più: Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev. Poi li leggevo ostentatamente al mio banco durante l’intervallo, certa che tutti mi avrebbero guardato, meravigliandosi della mia intelligenza. Dopo qualche giorno mi resi conto che nessuno mi guardava, perché erano tutti fuori in cortile a divertirsi, mentre io ero seduta in classe a fissare accigliata libri che non stavo nemmeno leggendo.
Fu più o meno a questo punto che decisi di smetterla, perché non solo non ero intelligente, ma non riuscivo nemmeno a far finta di esserlo, il che sembrava veramente una doppia sconfitta. Vorrei potervi dire che da lì in poi imparai ad abbracciare e ad accettare il mio essere nella media, ma non è stato così, e la storia di tutto ciò è nel libro di cui parlerò a questo festival. Una cosa però ho capito nel tempo: non volevo essere intelligente. Volevo essere speciale. Se una volta vedevo adulti americani che cercavano di essere intelligenti, oggi vedo adulti che vogliono essere speciali: Elon Musk insiste che è un genio, Trump insiste che è un grande negoziatore, e i social media si basano sulla convinzione che i propri pensieri e la propria faccia siano così speciali da dover essere condivisi con il mondo. Io avevo 13 anni quando ho imparato che insistere nel voler essere speciali ti fa solo sembrare stupida. Il che, col senno di poi, mi fa sentire quasi intelligente.
di Federico Arduini
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