Marrakech, Hitchcock e l’immaginazione
Questo è uno degli articoli dell’inserto speciale di sabato 2 luglio, interamente dedicato a uno degli ingredienti irrinunciabili della vita: la passione.
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Marrakech, Hitchcock e l’immaginazione
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Questo è uno degli articoli dell’inserto speciale di sabato 2 luglio, interamente dedicato a uno degli ingredienti irrinunciabili della vita: la passione.
«C’è qualcosa di più importante della logica, è l’immaginazione». Alfred Hitchcock, regista inglese di casa a Hollywood e inventore di quel meccanismo perfetto del giallo-nero al cinema, con trame intessute di suspensee delitti, non aveva dubbi sul potere affascinante e a tratti salvifico dell’immaginazione.
Di capolavori Hitchcock ne ha girati molti, ragion per cui evitiamo di elencarli puntando dritto su un film di cui lui stesso ha poi fatto il remake: “L’uomo che sapeva troppo”. Trattiamo qui del secondo, del remake appunto (anno 1956), con James Stewart e Doris Day dove Hitchcock fa anche una breve apparizione davanti alla macchina da presa – vezzo che ripeteva di tanto in tanto nelle sue pellicole – di spalle, mentre assiste allo spettacolo di alcuni saltimbanchi nel mercato di Marrakech. Questo film ha il pregio di tenere assieme non una ma tre passioni, in una sorta di trinità laica venuta su per caso più che per logica.
La prima passione, che è anche la più ovvia, attiene al cinema: un lucernario dell’infinito, una fabbrica dei sogni dove ogni spettatore e spettatrice crede di svagarsi trovando in realtà spicchi della propria vita (gioie, delusioni, malinconie, vendette, amori).
La seconda passione è geografica e culturale assieme: Marrakech, città imperiale marocchina dove si mischiano i piaceri e i dolori del mondo, tutti assieme in un’atmosfera fatta di odori, di ricordi, misteri, paure, sogni, storia e conflitti. In una parola: di vita.
La terza passione, legata a “L’uomo che sapeva troppo”, è invece l’agonismo, l’eterna competizione con sé stessi, assai più rigorosa e faticosa di quella con gli altri. Facendo il remake di sé stesso (la prima versione del film era del 1934, 22 anni prima, prodotta in Gran Bretagna e non negli Usa), Alfred Hitchcock applica in effetti la regola dello struggle for life: lottare allo specchio, per superarsi.
Citando il regista e intellettuale francese François Truffaut, autore del saggio “Il cinema secondo Hitchcock”, si potrebbe azzardare che la prima versione sia stata fatta da un dilettante di talento, mentre la seconda da un professionista. Ma anche questo alla fine sarebbe riduttivo.
Perché la logica, come sosteneva Hitchcock, può essere ottusa e far perdere di vista immaginazione, istinto e libertà. Seguendo la logica, infatti, quando mai potrebbe accadere che mentre il mondo crolla un uomo e una donna scelgano proprio quel momento per innamorarsi? Nella vita e al cinema accade. Ma quello è “Casablanca”, un altro film.
Di Massimiliano Lenzi
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