Homo Sapiens e post-verità
| Cultura
Per lo storico israeliano Harari, l’Homo Sapiens è una specie post-verità, il cui potere è creare e credere a finzioni. E i social lo sanno benissimo.

Homo Sapiens e post-verità
Per lo storico israeliano Harari, l’Homo Sapiens è una specie post-verità, il cui potere è creare e credere a finzioni. E i social lo sanno benissimo.
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Homo Sapiens e post-verità
Per lo storico israeliano Harari, l’Homo Sapiens è una specie post-verità, il cui potere è creare e credere a finzioni. E i social lo sanno benissimo.
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Basta una app per togliersi trent’anni. I social sono popolati da avatar ventenni; quanto agli utenti, chi lo sa? In una realtà virtuale ogni finzione vale l’altra e allora tanto vale dare sfogo all’immaginazione. C’è chi abbellisce i curricula (magari aggiungendo qualche esperienza) e chi s’inventa dottorati, come Elon Musk. Anche la lista dei politici con lauree farlocche è lunga. Quando si viene a sapere, lo sdegno dura un hashtag in tendenza per poche ore. Viviamo in un’era dove coesistono narrazioni antitetiche fino a creare realtà parallele: Trump non ha perso le elezioni, la Russia non ha invaso l’Ucraina, l’effetto serra non esiste.
Non stupisce allora che qualcuno abbia voluto spingersi oltre e inventarsi un’intera biografia. È il caso di George Santos, il neo-eletto deputato repubblicano che ha impostato la campagna elettorale presentandosi come l’incarnazione del sogno americano: ebreo, nipote d’immigrati fuggiti dalle persecuzioni, laureatosi in un’università prestigiosa, idolo di Wall Street, 13 case di proprietà e una nonna vittima dell’attacco dell’11 settembre. Un impasto che ha convinto gli elettori. Peccato che siano tutte fandonie: la nonna è morta nel 2016, la famiglia non è ebrea, Santos non si è mai laureato né ha lavorato per Goldman Sachs, non ha proprietà immobiliari e nemmeno una sua abitazione in affitto, vivendo ospite della sorella.
Secondo lo storico israeliano Yuval Noah Harari, l’Homo Sapiens è una specie post-verità, il cui potere dipende dalla capacità di creare e credere a finzioni. Ha conquistato il pianeta grazie all’abilità di diffondere miti che consentono a individui estranei tra loro di collaborare in modo efficace. Sempre secondo Harari, la differenza tra una fake news e una religione è nella sua efficacia: se a una finzione aderiscono poche migliaia di persone per un limitato periodo di tempo è una fake news, se invece coinvolge milioni di persone per migliaia di anni è una religione. È una lettura che scardina non poche certezze, in quanto pone sullo stesso piano di astrattismo fittizio tutto ciò che convince gli esseri umani ad aderire a una visione che comporta una condivisione di regole e valori. Dalle religioni alle leggi di uno Stato, dalla propaganda alla manipolazione, la differenza è una mera questione di “aderenza” e “permanenza”.
Non è la prima volta in cui le certezze di una società vengono rimesse in discussione: Dostoevskij ebbe il suo da fare per attaccare il nichilismo mostrando che la rinuncia a Dio porta a un’esistenza amorale e priva di scopo; qualche decennio dopo la teoria della relatività costringeva filosofi, artisti e scrittori a reinterpretare la realtà all’insegna della casualità. Perdita di basi morali e smarrimento esistenziale sono il prezzo di una nuova interpretazione, che costringe a ridefinire la percezione della realtà. Nell’era della comunicazione globale Harari ci conduce su un terreno melmoso. Siamo davanti a una relativizzazione basata sull’accordo collettivo, là dove ciascuna finzione compete per aggiudicarsi condivisione e permanenza servendosi dei social media come cassa di risonanza.
Una gara per passare dalla fake news alla verità assoluta. Tutto è narrazione.
di Alessandra Libutti
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