La Milano cambiata e che deve cambiare
Una riflessione sulle tre fasi di sviluppo della città di Milano, una metropoli in continua evoluzione, a pochi giorni dalle elezioni comunali.
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La Milano cambiata e che deve cambiare
Una riflessione sulle tre fasi di sviluppo della città di Milano, una metropoli in continua evoluzione, a pochi giorni dalle elezioni comunali.
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La Milano cambiata e che deve cambiare
Una riflessione sulle tre fasi di sviluppo della città di Milano, una metropoli in continua evoluzione, a pochi giorni dalle elezioni comunali.
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Una riflessione sulle tre fasi di sviluppo della città di Milano, una metropoli in continua evoluzione, a pochi giorni dalle elezioni comunali.
A Milano l’unica incertezza è se Sala sarà rieletto al primo o al secondo turno. L’atmosfera di generale soddisfazione per come la città è stata amministrata (includendo anche i sindaci che hanno preceduto Sala, peraltro di diverso colore politico: il famoso ‘modello Milano’) non lascia spazio per domande sul futuro. Che è alle porte e richiede risposte. Nel passato di Milano si possono distinguere tre fasi.
Nella prima, protrattasi fino alla fine degli anni Settanta, la città vede ancora le fabbriche all’interno dei suoi confini amministrativi: non dissimilmente da Torino (ma con più ‘poli’ logistico-produttivi), le esigenze di crescita rapida della popolazione e il grande consumo di suolo occupano a tempo pieno la politica locale. Non manca un ruolo importante per un progressismo urbanistico che si sforza, non sempre senza successo, di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie: sorgono in periferia alcuni esempi di quartieri modello come il QT8, si costruiscono le prime metropolitane, ci si preoccupa dell’inquinamento.
Nella seconda fase, le fabbriche chiudono o se ne vanno. Milano perde popolazione, soprattutto di lavoratori giovani. Entro i confini comunali o nelle immediate vicinanze (Sesto San Giovanni) si aprono voragini di chilometri quadrati: sono le ‘aree industriali dismesse’, la cui proprietà è concentrata in gruppi privati o pubblici i cui centri decisionali sono lontani da Milano (Fiat, Iri, Eni, Ferrovie; solo la Fiera può definirsi ‘milanese’).
Parte quindi una guerra, trentennale, fra la proprietà fondiaria tradizionale (a sua volta concentrata in alcune famiglie patrizie) e gli ‘homines novi’ (primo fra i quali Salvatore Ligresti), spesso simbiotici con la politica, che vedono nelle aree ex industriali un’occasione irripetibile di sviluppo e guadagno. La guerra conosce fasi alterne ma, con Mani Pulite, segna un punto a favore delle famiglie patrizie. Sulle aree dismesse si fanno convegni e progetti ma cala il silenzio. Nel frattempo il mercato, in perenne movimento e non controllabile né dai politici né dagli urbanisti, fa avanzare il settore terziario: in sintesi, colletti bianchi al posto di quelli blu. Solo che gli impiegati non abitano nel territorio del Comune ma nell’hinterland, e a Milano entrano ogni mattina ed escono ogni sera.
800mila automobili si riversano in città, in particolare verso il centro, dove vengono localizzati gli uffici e dove si concentra la proprietà fondiaria tradizionale. E con gli impiegati, l’indotto di servizio: furgoncini, bar, ristoranti, fast food, piccolo commercio. Le preoccupazioni, prima dominanti, per le periferie urbane fanno posto, nella mente dei decisori politico-amministrativi, a come risolvere la congestione: quindi metropolitane e parcheggi, poi le maniere forti dell’Area C.
L’idea, presa a prestito da altre metropoli europee, è che chi viene da fuori per lavorare debba pagare i costi della congestione che contribuisce a creare: d’altra parte, non sono persone che votano alle elezioni comunali e l’area metropolitana non esiste. Nel frattempo la domanda abitativa ristagna a fronte di una rendita alta e concentrata, soprattutto nei quartieri centrali. Il patrimonio abitativo privato, piccolo borghese o borghese, invecchia e diventa troppo costosa la sua riqualificazione.
Giungiamo così alla terza fase, quella odierna. La terziarizzazione non può andare avanti all’infinito, occorre rendere nuovamente attrattivo abitare a Milano. Le gru si rimettono in moto nelle aree ex industriali: la proprietà è passata a investitori esteri (Qatar) o finanziari (Generali) non milanesi ma che si affidano a developer professionali convinti di poter realizzare profitti da costruzioni residenziali di lusso, a sviluppo verticale (per risparmiare consumo di suolo) e a forte contenuto tecnologico. Si diffonde l’idea che la città possa diventare un’esperienza piacevole: terrazzi, giardini, chilometri di piste ciclabili, persino l’idea di riaprire i Navigli alla navigazione.
Quanto al patrimonio residenziale esistente, occorre dare impulso a un’offerta di affitti ‘cari’ e possibilmente brevi, per incontrare una domanda esterna in crescita: studenti universitari, familiari di pazienti oncologici, Rsa, turisti, manager dall’Italia e dall’estero. «Com’è bella la città» cantava Giorgio Gaber, «Milano, che fatica» cantava Lucio Dalla.
Ma che ne facciamo di quelli che entrano ancora in macchina e non trovano i parcheggi? E le periferie riempite di extracomunitari condannati alla marginalità o a piccole attività illegali? Stupisce che la sinistra non si ricordi del popolo, ma anche che la destra si dimentichi di migliaia di piccoli proprietari, spesso anziani, il cui patrimonio si depaupera ogni giorno.
di Angelo Pappadà
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Tag: Italia
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