Quel genio di Satchmo
La parabola della vita di Louis Armstrong: nel periodo della Grande depressione fa tappa a Los Angeles per poi tornare trionfalmente nella Grande Mela
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La parabola della vita di Louis Armstrong: nel periodo della Grande depressione fa tappa a Los Angeles per poi tornare trionfalmente nella Grande Mela
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La parabola della vita di Louis Armstrong: nel periodo della Grande depressione fa tappa a Los Angeles per poi tornare trionfalmente nella Grande Mela
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La parabola della vita di Louis Armstrong: nel periodo della Grande depressione fa tappa a Los Angeles per poi tornare trionfalmente nella Grande Mela
L’età del jazz è quel decennio della storia statunitense che va dal primo dopoguerra fino a quasi la fine dei ‘ruggenti anni Venti’. Simbolo di un’epoca dorata – non priva di contraddizioni e perversioni – è “Il grande Gatsby” (1925), il romanzo più importante di Francis Scott Fitzgerald. Quando Nick Carraway intravede da lontano il protagonista che, nella sua lussuosa villa, tende le braccia a una «luce verde» dall’altra parte dell’orizzonte (la casa in cui abita la sua amata Daisy), non è difficile sciogliere l’allegoria: la donna e il chiarore emanato sono l’emblema del «sogno americano», della «Terra Promessa» (cfr. Rollo May, “Il richiamo del mito”, Rizzoli 1991) con tutto il carico di speranze illuse e dolorosi vagheggiamenti.
La parabola della vita di Louis Armstrong non è certamente comparabile a quella di Jay Gatsby, benché le analogie non manchino. Nato il 4 agosto 1901 a New Orleans, ‘Satchmo’ – per via della sua caratterista bocca a sacco – è stato una delle personalità più influenti della musica novecentesca tout court. La sua folgorante carriera comincia proprio nel cuore dell’età del jazz: prima in qualità di cornettista a Chicago nella band di Joe ‘King’ Oliver, poi come trombettista a New York nell’orchestra di Fletcher Henderson.
Nel periodo della Grande depressione Armstrong fa tappa a Los Angeles: suona al Cotton Club – frequentato anche da Bing Crosby – per poi tornare trionfalmente a New Orleans e nella Grande Mela. Il successo è assicurato: incide alcuni dischi con Ella Fitzgerald, suona assieme a Duke Ellington, duetta con Bessie Smith e Barbra Streisand, compare in numerosi film, sempre con la sua allegria a trentasei denti. Moltissime sono anche le canzoni che il musicista porta alle luci della ribalta: il glorioso spiritual “When the Saints Go Marching In”, modulato sull’Apocalisse di Giovanni («Camminiamo sui passi / di coloro che sono già andati / e saremo tutti riuniti / in una nuova spiaggia assolata. / Oh, quando i santi marceranno / oh, quando i santi marceranno / Signore, come vorrei essere in quel numero»); “Zip-A-Dee-Doo-Dah”, un gustoso nonsense onomatopeico apparso nell’album del 1968 “Disney Songs the Satchmo Way” (che comprende persino una “Bibbidi-Bobbidi-Boo” cosparsa di ironia e raucedine).
Ma il pezzo par excellence di “Pops” è uno soltanto, impossibile sbagliarsi: “What a Wonderful World”, composta da George David Weiss e Bob Thiele e interpretata da Armstrong a partire dal 1967. «Vedo alberi verdi, e rose rosse / Le vedo fiorire per me e per te / E penso dentro di me: “Che mondo meraviglioso”. […] I colori dell’arcobaleno, così belli nel cielo / sono anche nei volti della gente che passa. / Vedo gli amici stringersi la mano, chiedersi: “Come va?” / In verità stanno dicendosi: “Ti voglio bene”». Cos’altro aggiungere? Senza quella voce pastosa e ‘sporca’, quel labbro deformato dalla pressione della tromba, quel sorriso balbettante…
Di Alberto Fraccacreta
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