Sebastião Salgado, i suoi occhi sul mondo
Sette anni di lavoro e oltre 200 fotografie per documentare la ‘preistoria dell’umanità’ con la mostra “Amazzonia”
| Cultura
Sebastião Salgado, i suoi occhi sul mondo
Sette anni di lavoro e oltre 200 fotografie per documentare la ‘preistoria dell’umanità’ con la mostra “Amazzonia”
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Sebastião Salgado, i suoi occhi sul mondo
Sette anni di lavoro e oltre 200 fotografie per documentare la ‘preistoria dell’umanità’ con la mostra “Amazzonia”
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Sette anni di lavoro e oltre 200 fotografie per documentare la ‘preistoria dell’umanità’ con la mostra “Amazzonia”
Sebastião Salgado ha l’umanità negli occhi, la stessa immediatamente percepibile nelle sue fotografie: dirette, profondamente sue, dalle tematiche drammaticamente nostre.
Ritorna a Milano – «La città che ha dato sempre molto spazio al mio lavoro» – per ricevere il sigillo della città e presentare la mostra “Amazônia”, dal 12 maggio alla Fabbrica del Vapore. Oltre 200 fotografie raccolte in 7 anni di lavoro, dedicate all’incredibile ricchezza della foresta amazzonica e dei popoli che la abitano. Accanto a lui, come è sempre stato, la sua fedele moglie e collaboratrice Lélia Wanick Salgado. Un lavoro confluito anche nel progetto editoriale “Amazonia touch”, con fotografie tattili che permetteranno anche ai non vedenti di toccare con mano la bellezza e la fragilità del “polmone del pianeta”. «L’Amazzonia rappresenta la preistoria dell’umanità. Ci sono 102 comunità che non hanno mai avuto contatti con il mondo esterno» spiega Salgado. «Affinché la vita e la natura possano sottrarsi a ulteriori episodi di distruzione e depredazione, spetta a ogni singolo essere umano del pianeta prendere parte alla sua tutela».
Per chiunque abbia fatto la storia di quest’arte, la macchina fotografica rappresenta qualcosa: un’arma, un faro nel buio. Per Salgado è senza dubbio un megafono, utilizzato per raccontare ciò che non può essere visto o la sostanza che si cela dietro la forma. Da sempre, da quando nel 1973 smise i panni dell’economista lasciando il suo lavoro a Parigi presso l’Organizzazione mondiale del Caffè (Ico) per intraprendere il mestiere del fotoreporter umanista, documentando l’Africa e le disperate condizioni climatiche nel Sahel. La triade ambiente, cultura locale e arte fotografica diventeranno il suo marchio di fabbrica e lo sono tuttora.
Ci vuole coerenza per lavorare come Salgado. Uno che non si è mai nascosto dietro la bellezza inattaccabile dei suoi scatti e che con l’uso magistrale delle luci ha regalato alla disperazione le connotazioni della poesia. Sempre o quasi in bianco e nero: per eliminare il superfluo, concentrandosi sull’essenziale dualismo fra il bene e il male. Ci vuole coraggio per addentrarsi in Amazzonia, un’area più estesa dell’intera Unione europea, abitata da popolazioni indigene dissociate dal tempo che scorre, chiuse in quel mondo verde deturpato dal progresso e dalla politica. «Molti pensano che il presidente Bolsonaro sia stato l’artefice della distruzione amazzonica. Certo, lui ha contribuito in misura vistosa, ma si tratta di un processo iniziato tempo fa. Abbiamo il dovere di prendere una posizione. Abbiamo il dovere di porre l’attenzione sul tema e proteggere l’intero ecosistema globale».
Nella lingua portoghese salgado significa salato. È per tale ragione che il regista Wim Wenders scelse per il documentario del 2014 a lui dedicato il titolo “Il sale della Terra”. Un’esperienza estetica che ancora oggi colpisce al petto per la sua potenza innocente, per aver raccontato le avventure e l’intensa passione dell’artista degli ultimi, sempre con la macchina fotografica al collo. Analogica, finché ha potuto. Il salgado della Terra ha dato sapore e risonanza alle cose che accadono nel mondo e che meritano di essere viste. Ha saputo interpretare correttamente il pensiero contemporaneo del “Se non ti vedo non esisti”. Osservare il mondo attraverso i suoi occhi, condividendone le battaglie umane e ambientali, è un’esperienza irrinunciabile.
«Spero che quante più persone possibili vengano alla mostra ed entrino con me in Amazzonia, raccontino a tutti di esserci stati e di voler fare di tutto per ritornarci».
di Raffaela Mercurio
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