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Storia del juke-box, da divertimento a oggetto di culto

Oggi è difficile che si veda in giro ma forse, da qualche parte, ci sarà sempre un juke-box che suona
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Storia del juke-box, da divertimento a oggetto di culto

Oggi è difficile che si veda in giro ma forse, da qualche parte, ci sarà sempre un juke-box che suona
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Storia del juke-box, da divertimento a oggetto di culto

Oggi è difficile che si veda in giro ma forse, da qualche parte, ci sarà sempre un juke-box che suona
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Oggi è difficile che si veda in giro ma forse, da qualche parte, ci sarà sempre un juke-box che suona

Quando sono nato sembravo un armadio ma in realtà era ciò che contenevo a fare la differenza. E non sto parlando del meccanismo fatto di bracci meccanici, casseforti e sistemi di selezione. No, mi riferisco proprio alle emozioni che riuscivo a suscitare. Bastava una moneta per far scattare la magia. Un quarto di dollaro e diventavo il re della festa, con la gente che si scatenava e ballava intorno a me. Non sono sempre stato fortunato, però. Quando iniziai ad acquisire un minimo di popolarità era il 1927. Poi arrivò la Grande Depressione e nessuno aveva più voglia di divertirsi. Negli anni Trenta tornai in auge alla grande: pensate che nel 1936 eravamo in quarantamila lungo tutti gli Stati Uniti e c’era la corsa – da parte dei gestori dei locali – per avere uno come me. Poi c’è stata la guerra, chi mi assemblava fu costretto a produrre materiale bellico, così finii nuovamente in soffitta.

Ma poi ecco gli anni Cinquanta. Il mondo rialza la testa e divento inaspettatamente il simbolo della rinascita. Sono ovunque, non solo in America. Inizio a diventare famoso dappertutto. Al punto che cercano di vestirmi sempre meglio, più colorato, con le luci e tutto il resto. È il mio momento d’oro, non c’è che dire: mentre suono i dischi che ho al mio interno, vedo davanti a me gente che balla e si diverte, qualcuno che si innamora, qualche altro che si ferma a ricordare il passato, altri ancora che invece guardano al futuro. Intanto ho un ruolo fondamentale nel successo di parecchi artisti. Come quel ragazzo di Tupelo, un certo Elvis, le cui canzoni – anche grazie a me – arrivano a tutti. Non conosco le stagioni perché in inverno animo le serate nei locali e d’estate diffondo la mia musica sulle spiagge. Insomma, tra i simboli di quei favolosi anni a cavallo fra due decenni io ci sono a pieno titolo. Finisco spesso nei testi delle canzoni, al cinema e in tv sono poi una celebrità. In “Happy Days” soltanto Fonzie riesce a farmi funzionare – con un colpo leggero ma ben assestato – quando mi blocco. Mentre alcuni registi mi piazzano addirittura nei titoli dei loro film. Insomma, va tutto alla grande. Ma anche le storie più belle hanno una fine.

La mia arriva fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quando il disco in vinile inizia a passare di moda e in più la gente cambia il modo di socializzare. Comincia però una nuova fase della mia vita: divento un oggetto di modernariato e scopro che c’è gente capace di sborsare cifre astronomiche pur di avere in casa uno come me. Semplicemente per ciò che rappresento. Insomma, la fine della mia popolarità è l’inizio del mio mito. Ma ciò che mi rende più orgoglioso è che ho comunque attraversato la vita di intere generazioni diventando parte del loro bagaglio. Magari per un fugace istante, ma c’ero. Oggi è difficile che mi si veda in giro ma forse, da qualche parte, ci sarà sempre un juke-box che suona. O che continua a farlo nei ricordi di ognuno di voi.

di Stefano Faina e Silvio Napolitano

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