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Vecchi, giovani e la fretta di giudicare

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Sostenere che la propria generazione sia stata la migliore non è un fatto recente ma trova radici sin da Aristotele e Pirandello. Fino ai giorni nostri
la fretta di giudicare

Vecchi, giovani e la fretta di giudicare

Sostenere che la propria generazione sia stata la migliore non è un fatto recente ma trova radici sin da Aristotele e Pirandello. Fino ai giorni nostri
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Vecchi, giovani e la fretta di giudicare

Sostenere che la propria generazione sia stata la migliore non è un fatto recente ma trova radici sin da Aristotele e Pirandello. Fino ai giorni nostri
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Galeotto fu quel viaggio a Foggia per il pater familias Elkann, stando a quanto da lui stesso lamentato con un articolo che – come prevedibile – ha messo padri contro figli e viceversa, direttori contro giornalisti e viceversa, ricchi contro poveri e viceversa ma, soprattutto, giovani contro “diversamente giovani” – per dirla con un politically correct language – e viceversa. In realtà, credo che in quel viaggio sia scattata la più classica delle trappole in cui può precipitare un “matusa” (linguaggio della mia gioventù verso quelli che facevano sequestrare “Je t’aime, moi non plus”): l’invidia per un tempo irrimediabilmente passato, quello della miglior vita. Per dirla con Aristotele nel mai sufficientemente noto Libro II della “Retorica”: «I giovani mostrano quelle virtù che i più anziani non sanno più esercitare, essendo – i giovani – euetheis (aperti e sinceri), a differenza dei vecchi: kakoetheis (malfidenti e maligni)». Il fastidio, insomma, non era affatto riconducibile ad atteggiamenti o comportamenti dei novelli Lanzichenecchi, ma alla loro stessa esistenza: al loro essere portatori di quella «giovinezza che sì fugge tuttavia». Irrimediabilmente. La demonizzazione della precedente è esercitata di generazione in generazione. In più novelle di Pirandello questa contrapposizione viene raccontata con una suggestione emotiva che indulge alla condivisione, diventando in alcuni casi sostanza stessa della narrazione. Per esempio il rapporto padre-figlio o, peggio, padre-figlia è paradigmatico di un tempo che blindava come ‘giusti’ atteggiamenti che oggi ci parrebbero come di cavernicoli. Sostenere che la propria generazione sia stata la migliore (certamente più della precedente) è tesi sostenuta a ogni livello: dalla musica alla letteratura e al cinema. La condanna dei capelli lunghi e dei Rolling Stones della mia generazione è speculare all’attuale condanna dei tatuaggi e di una musica che – io per primo – non capiamo né vogliamo capire. Sul crinale del tempo l’inciampo è sempre dietro l’angolo. E nella maggior parte dei casi non ci si accorge nemmeno del ‘pericolo’. Ci si casca dentro e poi ci si arrampica fuori quasi con orgoglio, compiacimento, quando non con spocchia. Se diamo dei “Lanzichenecchi” a quei giovani che – peraltro in assenza di qualsivoglia comportamento offensivo – condividono la nostra stessa carrozza (di prima classe) di un treno, a quegli altri giovani che si sono calati nel fango romagnolo dobbiamo assegnare il titolo di “cherubini”? Basterebbe limitarsi a riconoscere la gioventù laddove si annida, in tutte le sue diversissime forme e altrettanto diversissime sostanze da che mondo è mondo. di Pino Casamassima

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