Bob Dylan filosofo della canzone moderna
Bob Dylan filosofo della canzone moderna
Bob Dylan filosofo della canzone moderna
S’intitola “The Phylosophy of Modern Song” (La filosofia della canzone moderna). È l’ultimo libro del premio Nobel per la letteratura Bob Dylan che, a 81 anni, preferisce scrivere piuttosto che cantare in giro per il mondo le sue poesie senza tempo. L’ex folletto di Duluth (Minnesota) affronta un viaggio immaginario attraverso le 66 canzoni e i relativi artisti che maggiormente lo hanno ispirato o colpito per originalità. A dirla tutta potremmo definirlo il libro delle amnesie eccellenti perché (a parte qualche fugace richiamo) omette mostri sacri come i Beatles, i Rolling Stones, Joni Mitchell, Aretha Franklin, il padre del jazz elettrico Miles Davis, il mondo dell’hip-hop, del rap e dell’ultimo pop perché – annota quasi giustificandosi – «nessuno parla dei propri sogni nelle canzoni di oggi: è che i sogni soffocano in questi ambienti senz’aria». Insomma, è come se qualcuno scrivesse un’antologia sulla letteratura italiana e omettesse di citare Dante, Manzoni, Moravia e Pasolini.
Sul sito “Dagospia” Marco Molendini fa notare come Dylan abbia voluto così viaggiare nella propria memoria scovando cose perdute, non scontate, passando dagli standard alle oscurità, alle stranezze. Sfogliando il libro, si nota come in primo piano vi siano gli anni Cinquanta, il blues, il country, il soul di Ray Charles e i padri del rock and roll come Carl Perkins e Little Richard. C’è l’ossequioso omaggio tipicamente dylaniano verso Elvis Presley, del quale annota: «Elvis che canta “Tutti i frutti” all’Ed Sullivan Show sa che cosa sta cantando? Pensa che Ed Sullivan lo sappia?...». Più che irritare, la proverbiale irriverenza dell’autore fa quasi tenerezza. In fondo, a un signore che ha superato le ottanta primavere si può concedere qualche debolezza. Scorrono gli anni Sessanta e Settanta con gli Who, i Clash e i Greatful Dead, icona del rock acido e psichedelico. Un po’ sibillinamente, di loro Dylan scrive: «Hanno più in comune con Artie Shaw e il be bop che con Byrds e Rolling Stones».
C’è l’immancabile omaggio a Frank Sinatra, che Dylan ha più volte citato quale idolo della sua maturità. Per non sbagliare il tiro cita “Strangers in the Night”, classico ma non certo superlativo pezzo di The Voice. La riflessione dell’autore è: «Una piccola canzone che ha battuto nelle classifiche di “Billboard” pezzi dei grandi del rock». C’è tutta l’ammirazione verso Tony Williams, leggendario cantante dei Platters, lo storico gruppo che influenzò la musica degli anni Cinquanta e da noi ispirò gli eleganti arrangiamenti del Quartetto Cetra. Di Williams Dylan scrive: «È uno dei più grandi cantanti di sempre. Tutti parlano di come Sam Cooke sia uscito dal gospel per entrare nel pop. Ma non c’è nessuno che possa battere il solista dei Platters».
Infine, il colpo di scena che ci inorgoglisce al di là della retorica di ogni metafora o, se preferite, di ogni ossimoro tipico dell’autore. Dylan approfondisce il caso “Volare” – negli Stati Uniti “Nel blu dipinto di blu” si intitolava così – e analizza a suo modo l’interpretazione di Domenico Modugno: «Solo il suono del suo nome crea il senso della canzone». E aggiunge: «Potrebbe essere uno dei primi pezzi allucinogeni, precedente a “White Rabbit” dei Jefferson Airplane di almeno dieci anni».
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