Dovere è potere, Al Pacino si racconta in “Sonny Boy”
Al Pacino si racconta come mai prima d’ora nell’autobiografia “Sonny Boy”, dall’infanzia nel Bronx all’Oscar nel film di Coppola
Dovere è potere, Al Pacino si racconta in “Sonny Boy”
Al Pacino si racconta come mai prima d’ora nell’autobiografia “Sonny Boy”, dall’infanzia nel Bronx all’Oscar nel film di Coppola
Dovere è potere, Al Pacino si racconta in “Sonny Boy”
Al Pacino si racconta come mai prima d’ora nell’autobiografia “Sonny Boy”, dall’infanzia nel Bronx all’Oscar nel film di Coppola
Al Pacino si racconta come mai prima d’ora nell’autobiografia “Sonny Boy”, dall’infanzia nel Bronx all’Oscar nel film di Coppola
Al Pacino si racconta come mai prima nell’autobiografia “Sonny Boy” (edita da La nave di Teseo), che ripercorre la sua storia fin dall’infanzia nel South Bronx di New York. La mamma lo portava al cinema già a tre o quattro anni: «Non sapeva che mi stava dando un futuro. Le sale cinematografiche erano un posto in cui mia madre poteva nascondersi nell’oscurità e non condividere il suo figlioletto con nessuno».
Il libro racconta del nonno – la sua prima, vera figura paterna – che «sembrava uscito da un libro di Dickens» (l’altro nonno, Alfred Pacino, era un ubriacone con imprevedibili sbalzi d’umore). Condivide aneddoti sulla nonna che cucinava cibo italiano e, mentre lo imboccava, gli raccontava storie strampalate di cui era il protagonista. E ancora riporta alcuni episodi vissuti con la ‘banda’ di cui faceva parte (gli «amici di strada»), con cui non si sentiva mai indifeso: «In quel quartiere sembrava che sfidassi la morte ogni giorno».
Attraversiamo le fasi in cui il giovane Pacino giocava nella squadra di baseball del quartiere, passiamo per gli anni in cui avrebbe potuto prendere la strada della delinquenza e della droga che ha ucciso i suoi amici (se questo non è successo lo deve a sua madre) e arriviamo al tempo della scuola, quando la sua insegnante gli consigliò di recitare dopo averne colto l’evidente talento. E poi gli anni della povertà, quelli dell’amicizia con Martin Sheen (con cui condivideva un piccolo appartamento), fino al suicidio della madre. Lei che per prima lo aveva portato a Broadway, lei che per prima gli aveva fatto conoscere il genio di Tennessee Williams, lei che lui avrebbe fatto di tutto per salvare.
In questa storia c’è tanto privato, c’è il coraggio di rivelarsi, di spogliarsi nudi. Ma c’è anche buona parte della storia del cinema, quando una ‘nuova era’ aveva imposto un orizzonte rivoluzionario in cui «James Dean era un sonetto e Marlon Brando un poema epico». Un’epoca che «non si limitava a prenderti alle viscere. Ti aggrediva». C’è un elemento che lega tutti i capitoli: si ha la nitida sensazione che quest’uomo non abbia mai smesso per un istante – neppure nelle condizioni più disperate, neppure quando dormiva fino a tardo pomeriggio per non sentire i morsi della fame – di credere che ce l’avrebbe fatta, di sentire che il suo sogno era la strada giusta. A un amico che gli chiese «Com’è che tu ce l’hai fatta e io no? Eppure, l’ho sempre voluto», Pacino rispose «Tu volevi. Io dovevo».
Ci sono il racconto di come conobbe Francis Ford Coppola, quello della telefonata con il regista de “Il padrino” che gli cambiò la vita affidandogli la parte di Michael Corleone, quello dell’Oscar vinto nel 1993 per “Scent of a Woman – Profumo di donna”. Questo è un testo denso di vita in cui, fin dalle prime pagine, si capisce lucidamente che un personaggio del genere non poteva che avere una vita straordinaria come lo è il suo sguardo rispetto ai ricordi. Leggere questo libro è come guardare un film: la voce di Pacino si sente, le persone della sua vita si vedono, prende forma un gruppo di stupefacenti interpreti animati dal più grande attore vivente. E fra le pagine, facendo amicizia con la propria immaginazione (così come ha fatto lui per primo, lo dichiara in apertura del libro), si compie la magia. Perché «le parole possono farti volare. Possono prendere vita».
Di Hilary Tiscione
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