Franzen torna a costruire un romanzo con architetture tradizionali
| Editoria
Con “Crossroads” abbandonati la sperimentazione e il postmodernismo. Non è un caso che molte delle serie televisive blasonate poggino sulle ben distese ossature e sugli intrecci del feuilleton dickensiano.

Franzen torna a costruire un romanzo con architetture tradizionali
Con “Crossroads” abbandonati la sperimentazione e il postmodernismo. Non è un caso che molte delle serie televisive blasonate poggino sulle ben distese ossature e sugli intrecci del feuilleton dickensiano.
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Franzen torna a costruire un romanzo con architetture tradizionali
Con “Crossroads” abbandonati la sperimentazione e il postmodernismo. Non è un caso che molte delle serie televisive blasonate poggino sulle ben distese ossature e sugli intrecci del feuilleton dickensiano.
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In un breve spot autopromozionale apparso su Twitter, Jonathan Franzen ha parlato del suo nuovo romanzo, “Crossroads”, uscito il 5 ottobre in molti Paesi (in Italia per Einaudi, tradotto da Silvia Pareschi). Lo scrittore statunitense ha fatto preciso riferimento alle strutture profonde del testo, alla dinamica narratologica innescata: a differenza de “Le correzioni”, opera argutamente sperimentale e postmoderna, “Crossroads” sembra tornare agli stili e alle modulazioni del cosiddetto romanzo tradizionale, dotato di estremo realismo, non pervaso di picchi glicemici nelle scelte formali, piano, elegante, vero regno della medietas e della mimesis (si ricordi la lezione di Auerbach).
“Crossroads” è il primo atto di una trilogia legata alle vicende degli Hildebrandt: siamo a New Prospect, nei pressi di Chicago, 1971. È il periodo di Avvento. Ampio spazio è dato alla tematica religiosa, al senso della fede e del misticismo nelle tumultuose circostanze familiari. Ecco l’incipit: «Il cielo spezzato dalle querce e dagli olmi spogli di New Prospect era pieno di una promessa umida, un paio di sistemi frontali che colludevano grigi per offrire un bianco Natale, mentre Russ Hildebrandt faceva il consueto giro di visite mattutine ai parrocchiani anziani e infermi con la sua Plymouth Fury station wagon».
L’ammissione di Franzen riguardo ai materiali di costruzione («Una storia in cui soltanto i personaggi e i loro problemi offrono la suspense necessaria») apre numerosi interrogativi sullo stato del romanzo odierno, viepiù se si considera che il neolaureato Premio Nobel Abdulrazak Gurnah è anch’egli un fautore delle architetture tradizionali.
È finita l’èra del postmodernismo e del decostruttivismo con le ironiche deformazioni del reale, con le ardite esagerazioni sintattiche e le parcellizzazioni della fabula (à la Pynchon, per intenderci)? Sta tornando una modalità narrativa orientata al gusto, o meglio – per utilizzare un’espressione di Roland Barthes – al «piacere del testo»? La crisi delle «grandi narrazioni», rilevata da Lyotard, è ancora tale o il desiderio del puro storytelling è vivo, sino alla possibilità letteraria di un post-postmodernismo? Tutto purché personaggi, rigorosamente ‘altri’ rispetto al narratore, occupino il centro dell’azione al di là delle deviazioni dell’autofiction e del biografismo privo di filtri (Franzen ha criticato aspramente i meccanismi di racconto soggettivo in “La fine della fine della terra”).
Del resto, il romanzo ottocentesco funzionava senza sbavature. Non è un caso che molte delle serie televisive blasonate poggino sulle ben distese ossature e sugli intrecci del feuilleton dickensiano. È anche questa, forse, una «promessa umida». Insomma, nei romanzi il lettore cerca l’alterità. E Franzen l’ha capito.
di Alberto Fraccacreta
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Tag: libri, televisione
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