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Il manga in Giappone

L’origine di un fenomeno globale divenuto in Giappone un’industria miliardaria basata sulla pubblicazione nelle riviste di settore e nei tankobon

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L’origine di un fenomeno globale divenuto in Giappone un’industria miliardaria basata sulla pubblicazione nelle riviste di settore e nei tankobon

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L’origine di un fenomeno globale divenuto in Giappone un’industria miliardaria basata sulla pubblicazione nelle riviste di settore e nei tankobon

In giapponese la parola manga non corrisponde esattamente né a fumetto (la sua traduzione italiana) né al francese bande dessinée (striscia disegnata). Il ‘fumetto’ è infatti uno dei nomi della nuvoletta in cui vengono solitamente espressi i dialoghi dei personaggi, fungendo da sineddoche per tutto il prodotto editoriale. In Francia si è addirittura adottato il formato originale delle strisce pubblicate sulle riviste. Manga si traduce invece come “immagine derisoria”, risultando più vicino allo statunitense comics (comiche) o al senso italiano di vignetta satirica. Fra i primi a usare tale definizione in Giappone furono gli artisti ukiyo-e, che vollero differenziare le proprie stampe di caricature dal resto della loro produzione pittorica. Se l’ukiyo-e era nato per rappresentare il “mondo fluttuante” (nel senso di una bellezza quasi oltremondana), il manga era dedicato quindi a soggetti più terreni. A cavallo tra i secoli XVIII e XIX furono gli artisti Kyoya Denzo e Aikawa Minwa a introdurre la parola come una categoria, ma fu soprattutto il grande pittore e stampatore Katsushika Hokusai a intitolare addirittura alcune sue raccolte di disegni come “Hokusai Manga”.

Data l’enorme popolarità dell’autore della xilografia “Una grande onda al largo di Kanagawa”, i 15 volumi in cui raccolse i suoi manga si dimostrarono molto influenti nella cultura giapponese, contribuendo a sdoganare presso il grande pubblico le narrazioni fatte con disegni in bianco e nero. Narrazioni per immagini erano comunque esistite in Giappone sin dal XII secolo, anche se gli emakimono (ispirati dai rotoli di carta cinesi) appaiono più racconti illustrati che non fumetti. Così come i meno antichi kibyoshi, storie disegnate in cui i dialoghi apparivano in didascalie sin dal XVIII secolo. Per dare vita al fenomeno del manga moderno, si deve però aspettare l’influenza culturale statunitense del Novecento. L’esplosione negli Stati Uniti dei comics aveva infatti definito il fumetto come una parte importante (e redditizia) del mondo editoriale legato ai quotidiani. Un risultato ottenuto grazie all’abbattimento dell’analfabetismo nella popolazione bianca e capace di scatenare una spietata caccia commerciale al lettore-acquirente.

Sebbene si dimostrò impossibile replicare subito tale successo nell’arcipelago nipponico, con l’occupazione alleata nel secondo dopoguerra il manga si innestò nel processo di ricostruzione della cultura nazionale giapponese adombrata da decenni di fascismo militarista. Nonostante la fortissima censura militare ordinata dal generale Douglas MacArthur, la società del Giappone poté finalmente tornare a esprimersi con la forza di una economia liberale in ricostruzione. Dal 1946 in poi fioccano nuovi magazine che contribuiscono allo sforzo di questa rigenerazione culturale ed è su uno di questi – stampato per le scuole elementari – che Osamu Tezuka pubblica il suo primo manga: “Il diario di Ma-chan”, sulle avventure di una scolara discola e sulla sua voglia di vivere a modo suo nel Giappone del dopoguerra. Nello stesso anno è la mangaka (fumettista) Machiko Hasegawa a pubblicare sul suo quotidiano locale la prima avventura della fortunatissima “Sazae-san”, una donna spigliata e molto legata al suo cavallo. Due rappresentanti dello spirito più puro e innocente di un Paese sconfitto, desiderose di trovare il loro posto in un mondo più prospero. Muovendo i passi da questo desiderio di riscatto, il manga avrà poi modo di diventare in Giappone un’industria miliardaria basata sulla pubblicazione sia nelle riviste di settore sia dei tankobon (gli albi veri e propri).

Di Camillo Bosco

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