La rivoluzione di Playboy
Alfiere della liberazione sessuale, campione dell’emancipazione razziale, veicolo di lettura e giornalismo ma al tempo stesso di mercificazione della donna
| Editoria
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Alfiere della liberazione sessuale, campione dell’emancipazione razziale, veicolo di lettura e giornalismo ma al tempo stesso di mercificazione della donna
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Alfiere della liberazione sessuale, campione dell’emancipazione razziale, veicolo di lettura e giornalismo ma al tempo stesso di mercificazione della donna
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Alfiere della liberazione sessuale, campione dell’emancipazione razziale, veicolo di lettura e giornalismo ma al tempo stesso di mercificazione della donna
Alfiere della liberazione sessuale, campione dell’emancipazione razziale, veicolo di letteratura e giornalismo raffinati ma al tempo stesso strumento di mercificazione della donna e anche occasione di violenza sessuale, soprattutto una grande storia di imprenditoria tipicamente americana: tutto questo è stato il mensile “Playboy”, che questo dicembre celebra i suoi 70 anni. Il primo numero uscì in edicola a metà del dicembre 1953. Al suo interno vi erano un
racconto di Sherlock Holmes, un estratto del “Decameron”, un resoconto su quanto costasse a un uomo divorziare, una cronaca sulla scena jazz, vignette umoristiche, recensioni di libri e film. Ma insieme a tutto questo trovavi anche foto di donne nude, a partire da alcune di Marilyn Monroe che campeggiavano in copertina. All’epoca l’attrice era all’apice della fama, ma quelle immagini le aveva vendute quattro anni prima, per appena 50 dollari, quando ancora faceva la fame.
L’editore e direttore della rivista, il 26enne Hugh Hefner, già copywriter presso “Esquire”, si era licenziato perché guadagnava poco e gli avevano rifiutato un aumento. Gran parte degli 8mila dollari necessari alla realizzazione dell’idea glieli avevano dati mamma e fratello. Nell’editoriale elencava i quattro argomenti che la conversazione di un uomo moderno avrebbe dovuto coprire: Nietzsche, Picasso, il jazz e il sesso. Gli uomini correvano a comprare una copia di “Playboy” per poi nasconderla sotto i vestiti, in altri giornali o in fondo alle valigette. La rivista divenne un fenomeno editoriale (toccando nel novembre 1972 il record di 7,2 milioni di copie vendute) e anche un impero, con la comparsa dell’iconico logo della coniglietta e diverse attività in franchising. La “Playmate del mese” fissava il canone di bellezza femminile del secolo e ben presto apparire nude o quasi su “Playboy” divenne una tappa essenziale e una consacrazione del successo di attrici, modelle, cantanti e atlete. Lo scrittore Gay Talese una volta scrisse che proprio su quelle pagine molti uomini videro per la prima volta una donna nuda a colori.
In seguito “Playboy” iniziò a subire la concorrenza di altre riviste che seguivano il suo modello (ma con più nudi e meno cultura, anche se in molti cercavano di giustificarsi col dire «Compro la rivista per gli articoli»). Ray Bradbury vi pubblicò, per la prima volta e a puntate, “Fahrenheit 451”. Su “Playboy” scrissero Vladimir Nabokov, Philip Roth, Saul Bellow, Margaret Atwood, Isaac Asimov e Road Dahl. James Baldwin vi pubblicò le sue infuocate requisitorie contro la segregazione razziale. E sempre sulla rivista trovarono spazio le lunghe interviste a gente famosa firmate da Alex Haley, in seguito autore del best seller “Radici”.
La botta finale a “Playboy” la diedero la diffusione dei Vhs e l’avvento di Internet. Adesso è disponibile soltanto online e in epoca di MeToo sono venute fuori anche molte storie non commendevoli sul trattamento inflitto alle donne che hanno lavorato per l’impero di Hefner. Che comunque, nel bene e nel male, ha fatto a suo modo la storia.
Di Maurizio Stefanini
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