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Quando Jacovitti vendette più di Eco

Storia di un estremista di centro che rinunciò a molto in cambio della libertà di fumettare quel che gli pareva.
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«Ogni tanto quando guardo i miei disegni mi spavento, poi penso alla morte e mi tranquillizzo».

Così Benito Jacovitti riassumeva tutta la sua poetica di fumettista, rivendicando di essere solitario, triste e pazzo come tutti gli umoristi capaci di far ridere.
Detestava la folla ma amava la gente, che ammirava sfilare mentre beveva il suo Negroni seduto al bar, alla ricerca di scene e frasi da inserire nelle sue storie.

Viveva la sua professione come un clown che avesse il compito di sparigliare la realtà del pubblico a suon di torte in faccia e trovate buffe, confondendolo con panoramiche caotiche zeppe di personaggi e strane allusioni (onnipresente il suo «Vietato cosare») in cui ogni elemento appariva contemporaneo nel piano narrativo, sfidando il lettore in una spassosa caccia alla gag.

Il gusto per il caos grafico era il suo leitmotiv, esploso nella selva di salami, ossa, vermi, lische di pesce e macinini che finirono per affollare i suoi fumetti di pari passo con l’ecletticità con cui affrontava generi e ambientazioni diversi fra loro, amalgamandoli coi tratti ironici e surreali delle sue storie.

D’altronde era un autore unico in Italia, con un tratto alla Robert Crumb – col quale condivideva donnoni giganteschi e omini minuscoli – e una prolificità degna di Simenon o Tezuka con cento e più personaggi inventati: di questi, moltissimi entrarono nel cuore dei lettori – Pippo Pertica e Palla, la Signora Carlomagno, Zorry Kid o quel Cocco Bill che divenne eroe del Carosello – per poi confluire nell’inedita trovata editoriale di un diario scolastico da lui illustrato.

Il “Diario Vitt” fu un successo strepitoso, che aumentò le vendite di anno in anno (dal 1949 per tre decenni) fino a superare anche casi editoriali come il “Nome della Rosa”. A un certo punto decise, insieme a Marcello Marchesi, di adattare il Kamasutra sulle pagine di “Playmen”. Era il 1977 e nonostante le tavole del suo “Kamasultra” fossero più jacovittesche che pornografiche ne nacque un putiferio; la Ave, la casa editrice legata all’Azione cattolica con cui pubblicava, gli impose un aut aut: o le pubblicazioni licenziose o il Diario.

Jacovitti decise allora di tagliare i contatti con l’editore censore, anteponendo la propria libertà creativa ai cospicui introiti che il rapporto gli garantiva. Anzi, negli anni rincarò la dose ideando goliardate come il personaggio di Joe Balordo e lodando l’editore di “Playmen” (Mega Publicitas) come l’unico a non averlo mai censurato: né nelle forme femminili come gli editori cattolici, né nella satira al perbenismo come i quotidiani, né nello sfottò dei movimenti extraparlamentari come le riviste.

Non cadde sul soffice ma negli anni non si pentì mai di aver tenuto la schiena dritta, e che un autore come lui – famoso per non prendere sul serio niente e nessuno (specialmente se stesso) – dimostrasse un così serio attaccamento alla propria libertà espressiva fu un vero paradosso degno delle pagine dei suoi assurdi, portentosi fumetti.

 

di Camillo Bosco

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