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spotify elimina neil young

La concorrenza giova alla libertà

Ancora brutte notizie per Spotify: dopo l’eliminazione della produzione di Neil Young, le piattaforme concorrenti hanno incassato un significativo aumento di traffico. E resta irrisolto il nodo sulle voci indipendenti, poco tutelate dall’azienda svedese.
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La concorrenza giova alla libertà

Ancora brutte notizie per Spotify: dopo l’eliminazione della produzione di Neil Young, le piattaforme concorrenti hanno incassato un significativo aumento di traffico. E resta irrisolto il nodo sulle voci indipendenti, poco tutelate dall’azienda svedese.
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Ancora brutte notizie per Spotify: dopo l’eliminazione della produzione di Neil Young, le piattaforme concorrenti hanno incassato un significativo aumento di traffico. E resta irrisolto il nodo sulle voci indipendenti, poco tutelate dall’azienda svedese.
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Ancora brutte notizie per Spotify: dopo l’eliminazione della produzione di Neil Young, le piattaforme concorrenti hanno incassato un significativo aumento di traffico. E resta irrisolto il nodo sulle voci indipendenti, poco tutelate dall’azienda svedese.
Il Leviatano dello streaming si accorge che il mercato della musica liquida è aperto. E funziona. Poche ore dopo la scomparsa da Spotify della produzione discografica di Neil Young per il podcast filo no-vax della discordia, Apple Music e Tidal hanno espresso sostegno al rocker canadese, spingendo all’ascolto delle sue playlist e incassando un significativo aumento di traffico. La fotografia nitida che è la pluralità di opzioni la garanzia per l’indipendenza creativa, intellettuale degli artisti e anche per il loro conto in banca. Lo studio del market data Midia sugli abbonamenti nella prima parte del 2021 attribuisce a Spotify il 31% del mercato dello streaming ma Apple Music e Amazon Music crescono a ritmo superiore. E c’è spazio anche per Tencent Music, YouTube Music, NetEase, Deezer, Yandex e Tidal, appunto. Insomma, c’è un ventaglio di scelte per Neil Young e per gli artisti che non si riconoscono nelle politiche di questa o quella piattaforma. Artisti che hanno mercato perché c’è un mercato. Piuttosto, Spotify dovrà recuperare in termini di appeal e credibilità. La vicenda Young arriva dopo mesi turbolenti. A novembre l’app svedese ha ceduto ad Adele, che ha ottenuto di rimuovere la riproduzione casuale dei brani dell’album “30”, mossa criticata dagli utenti della piattaforma. E poche settimane dopo il ceo di Spotify, Daniel Ek, è stato inondato di critiche per aver investito altri 100 milioni di euro per l’acquisto di un’azienda tedesca di intelligenza artificiale, Hansing, che supporta gli eserciti sul campo e vende tecnologia ai governi britannico, tedesco e francese. Dallo streaming alla difesa, nulla di nuovo. Anche Amazon, Oracle e Microsoft lavorano con il Pentagono: il settore informatico è sempre più decisivo per l’industria militare. Diversi artisti hanno però invitato al boicottaggio dell’applicazione, non accettando che con i proventi della loro produzione siano finanziate operazioni militari. Il nodo irrisolto per Spotify resta la politica sulle royalties che penalizza le voci indipendenti, assai criticato anche da stelle come Mick Jagger e Tom Jones. Spotify paga gli artisti 0,003 dollari per ascolto, in mezzo fra 0,001 dollari (YouTube) e 0,005 (Apple Music, Google Play). Spotify però non paga sempre direttamente gli artisti. Piuttosto remunera i titolari dei diritti (etichette discografiche, artisti, distributori, altre agenzie) che sono definiti tramite un accordo fra un’organizzazione (etichetta, distributore, editore) e un artista. Per gli artisti indipendenti – che spesso lavorano senza un’etichetta – Spotify paga il loro distributore, che a sua volta dovrebbe retribuire i musicisti. Se il distributore stringe accordi con un’etichetta, è poi questa a ricevere i pagamenti, per poi pagare gli artisti. Un modello che tutela assai poco i talenti emergenti, senza colossi alle spalle.   di Nicola Sellitti  

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