La “Stalingrado” di Vasilij Grossman
Nella sua opera “Per una giusta causa”, nome imposto dal partito comunista, emerge già il progressivo allontanamento di Grossman dal partito, in nome di un’ostinata ricerca della verità.
| Editoria
La “Stalingrado” di Vasilij Grossman
Nella sua opera “Per una giusta causa”, nome imposto dal partito comunista, emerge già il progressivo allontanamento di Grossman dal partito, in nome di un’ostinata ricerca della verità.
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La “Stalingrado” di Vasilij Grossman
Nella sua opera “Per una giusta causa”, nome imposto dal partito comunista, emerge già il progressivo allontanamento di Grossman dal partito, in nome di un’ostinata ricerca della verità.
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Nella sua opera “Per una giusta causa”, nome imposto dal partito comunista, emerge già il progressivo allontanamento di Grossman dal partito, in nome di un’ostinata ricerca della verità.
Nell’estate del 1941 Vasilij Semënovič Grossman è inviato di guerra per il periodico sovietico “Stella Rossa” e trascorre un migliaio di giorni al fronte, fino al maggio 1945 quando i russi sono ormai alle porte di Berlino.
In quegli anni lo scrittore ucraino – nato a Berdyčiv il 12 dicembre 1905 – lavora contemporaneamente a tre progetti: la cronaca di guerra appunto, l’inchiesta sui crimini dei nazisti e sullo sterminio degli ebrei (iniziata nel 1943 e culminata con la visione del lager di Treblinka) e una dilogia di romanzi che ha per protagonista l’epopea della famiglia degli Šapošnikov a Stalingrado, partendo dalla famosa battaglia che diede il via all’offensiva russa.
Il primo dei due libri, “Per una giusta causa”, esce soltanto nel 1952: all’epoca Grossman è ancora legato all’ideologia del partito e accetta parecchie delle deprimenti correzioni proposte per la pubblicazione, persino la modifica del titolo (quello pensato inizialmente dall’autore era “Stalingrado”).
La prima traduzione italiana di “Stalingrado”, a opera di Claudia Zonghetti, è ora finalmente disponibile per Adelphi (a cura di Robert Chandler e Jurij Bit-Junan) ed è un documento importante perché ci offre in pratica il prequel di “Vita e destino”, lasciandoci intravedere il progressivo e decisivo distacco di Grossman dal regime sovietico. Distacco maturato sin dal 1949 quando Vasilij, di origini ebraiche, osserva con sdegno la massiccia campagna antisemita scoppiata in Russia nel dopoguerra.
In “Stalingrado” Grossman mostra tutta la sua capacità di pennellare la Storia attraverso ghirigori di notevole suggestione ed energia emotiva: «Cosa spinse quella giovane donna a fare dietrofront e a tornare nell’ospedale in fiamme? Forse aveva nelle orecchie le grida straziate dei feriti che aspettavano d’essere operati? O forse si rimproverava come una bambina per essere stata vile, per essere scappata via, e come una bambina ora si incaponiva per vincerla, tanta viltà? Aveva ripensato al regolamento, alla vergogna di disertare? O era stato il gesto casuale di un momento? Oppure, al contrario, quel gesto riassumeva in sé tutto il bene che altri avevano istillato nel suo cuore?».
Grava un po’ sulla vivacità narrativa la prospettiva manichea insufflata dal marxismo leninista, recinto concettuale dal quale il romanziere non poteva ancora smarcarsi. Tuttavia, come notato dal professor Giovanni Maddalena, emerge già qui lentamente e ostinatamente un Grossman orientato alla «ricerca di senso» (che poi coincide con la ricerca del vero) e alle domande religiose tipiche di “Vita e destino”, capolavoro assoluto scritto a partire dal 1953, sequestrato dal Kgb, che farà borbottare Michail Suslov, direttore dell’ideologia del partito:
«Questo testo parla bene di Dio, della religione e del cattolicesimo ed esprime seri dubbi sul regime sovietico». Ma Bulgakov ci aveva avvertito: «I manoscritti non bruciano» e “Vita e destino”, simbolo di libertà di pensiero, vedrà la luce postumo nel 1980 a Losanna, scampato miracolosamente alla distruzione.
Grossman era intanto caduto in disgrazia e muore di cancro nel settembre del 1964. Ma le sue parole, di sconcertante attualità, ci toccano nel profondo: «Si dice che i bambini siano il nostro futuro, ma che cosa si può dire di questi? Non diventeranno mai musicisti, calzolai, sarti…».
di Alberto Fraccacreta
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