«Mi avvicinai alla verità, la cui parziale scoperta doveva portarmi a un così spaventoso naufragio: che l’uomo non è in verità uno ma duplice». Avvezzi come siamo a celebrare anniversari consolatori, rischiamo di scordarci d’una ricorrenza che merita tutta la nostra attenzione: il 5 gennaio del 1886, 136 anni fa, usciva in volume un capolavoro destinato a metter l’umanità di fronte a uno specchio. Titolo di quest’opera: “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, vergata dallo scrittore scozzese Robert Louis Stevenson.
Ora, sarà pur vero che – tolti il pallone, il whisky, i kilt e le cornamuse – in Scozia sia facile annoiarsi. Ma il libro incentrato sulla doppiezza dell’umanità, sulla sua eterna spaccatura tra bene e male, tra eros e thanatos, tra libertà e costrizione, è stato e resta un capolavoro. Una mistura cartacea contro il buonismo facile dei nostri tempi, contro il gusto d’assolversi in nome del conformismo e non dello stare al mondo.
In fondo – dopo la pedagogia facile e fideistica di Adamo ed Eva, di Caino e Abele, di Abramo e Isacco, del padre e del figliol prodigo – gli alambicchi chimici del dottor Jekyll e di mister Hyde sono quanto di più contemporaneo la letteratura possa dirci sulle nostre contraddizioni. Comprese quelle della psiche. Ha scritto Stevenson, nel suo racconto: «Jekyll provava molto più che l’interesse di un padre; Hyde molto meno che l’indifferenza di un figlio». Sconsolante? Sì. Molto. Del resto, da che mondo è mondo, l’umanità si alimenta di contraddizioni.
Di Aldo Smilzo
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