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Václav Havel un vero laico

“Il potere dei senza potere” di Václav Havel si interrogava sul rapporto fra l’‘io’ e il potere, delineando un quadro psicologico che andava al di là del contesto storico-politico di allora. Un testo che per primo parlò di ‘post-totalitarismo’ inteso come sistema proteso alla manipolazione delle coscienze.
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Václav Havel un vero laico

“Il potere dei senza potere” di Václav Havel si interrogava sul rapporto fra l’‘io’ e il potere, delineando un quadro psicologico che andava al di là del contesto storico-politico di allora. Un testo che per primo parlò di ‘post-totalitarismo’ inteso come sistema proteso alla manipolazione delle coscienze.
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Václav Havel un vero laico

“Il potere dei senza potere” di Václav Havel si interrogava sul rapporto fra l’‘io’ e il potere, delineando un quadro psicologico che andava al di là del contesto storico-politico di allora. Un testo che per primo parlò di ‘post-totalitarismo’ inteso come sistema proteso alla manipolazione delle coscienze.
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“Il potere dei senza potere” di Václav Havel si interrogava sul rapporto fra l’‘io’ e il potere, delineando un quadro psicologico che andava al di là del contesto storico-politico di allora. Un testo che per primo parlò di ‘post-totalitarismo’ inteso come sistema proteso alla manipolazione delle coscienze.

Fu un incontro folgorante quello con “Il potere dei senza potere” di Václav Havel (1936-2011) per noi adolescenti degli anni Settanta.

Scritto nel 1978, il testo dell’allora dissidente – divenuto presidente della Cecoslovacchia prima e della Repubblica Ceca poi – si interrogava sul rapporto fra l’‘io’ e il potere, delineando un quadro psicologico che andava ben al di là del contesto storico-politico di allora. In questo saggio Havel per primo parlò di ‘post-totalitarismo’ inteso come sistema proteso alla sistematica manipolazione delle coscienze attraverso la comunicazione, laddove l’ideologia diventa per l’uomo la maschera dietro la quale dissimulare il fiasco della propria esistenza, il proprio formalismo e conformismo. Rileggendo queste pagine, verrebbe oggi da stigmatizzare quel sottile e voluto fraintendimento sotteso alla lagna sovranista sull’identità debole di un Europa prona ai voleri della finanza internazionale; il tutto sulla base di una presunta identità forte che, più che altro, si rivela alla prova dei fatti un’identità falsa, rielaborazione farlocca di una tradizione poco conosciuta e male assimilata. Havel parte dalla persona, poiché solo un ‘io’ non de-moralizzato, cioè non manipolabile, può diventare protagonista della trasformazione di un Paese e dell’intera Europa.

Per i tipi de La Nave di Teseo è appena uscito in Italia “Havel. Una vita”, la biografia del drammaturgo e politico ceco firmata da Michael Žantovský, già portavoce e grande amico di Havel.

Vi si raccontano gli anni del carcere, gli incontri con il compagno di prigionia e sacerdote domenicano Jaroslav Dominik Duka, gli scambi con il filosofo cristiano Zdeněk Neubauer, per non dire del legame maturato con Václav Malý, poi divenuto vescovo di Praga e tra i primi a sottoscrivere l’appello dei dissidenti del futuro presidente ceco. Malý fu il portavoce del Forum Civico, le cui riunioni si aprivano con un Padre Nostro mal recitato, posto che quasi nessuno ne ricordava più le parole (alla voce cancel culture si veda anche “comunismo”…). Havel non era religioso, ma biasimava la «relativizzazione delle norme morali». Pensava ultimamente che solo «un’àncora trascendente» avrebbe potuto preservare i valori a lui cari e quell’Europa vista come uno «straordinario e fortunato amalgamarsi di antichità classica, religiosità ebraica e cristianità» (discorso ad Aquisgrana, 1996). Fu un grande laico, forse l’ultimo che ha saputo comprendere (cum prehendere) le radici profonde della cultura europea al cospetto delle rovine nichiliste del mondo contemporaneo.   Di Fabio Torrembini

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