Caporalato nella moda, altri 13 brand nel mirino. Il lavoro invisibile dietro il Made in Italy
Per capire dove si annida il caporalato di lusso basta seguire il percorso di un singolo prodotto, da quando è un disegno su carta a quando arriva in negozio
Caporalato nella moda, altri 13 brand nel mirino. Il lavoro invisibile dietro il Made in Italy
Per capire dove si annida il caporalato di lusso basta seguire il percorso di un singolo prodotto, da quando è un disegno su carta a quando arriva in negozio
Caporalato nella moda, altri 13 brand nel mirino. Il lavoro invisibile dietro il Made in Italy
Per capire dove si annida il caporalato di lusso basta seguire il percorso di un singolo prodotto, da quando è un disegno su carta a quando arriva in negozio
Lo sfruttamento nel cuore del Made in Italy non può più essere liquidato come un incidente isolato.
Le inchieste che si susseguono negli ultimi mesi – e ora le nuove iniziative della procura di Milano, che dopo il caso Tod’s ha esteso l’attenzione ad altri 13 marchi della moda e del lusso per verificare un possibile ricorso a manodopera sfruttata – non sono soltanto un altro capitolo di cronaca giudiziaria.
Mettono sotto esame il modo in cui questo Paese costruisce ciò che chiama eccellenza e quanto il racconto del lusso etico regga alla prova degli ultimi anelli della produzione.
I nomi coinvolti sono tra i più pesanti del settore
I nomi coinvolti sono tra i più pesanti del settore: Dolce & Gabbana, Prada, Versace, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia, Off-White Operating.
A queste realtà è stato chiesto di esibire la documentazione relativa alla filiera produttiva, così da chiarire il ruolo e i controlli sui fornitori.
La richiesta segue una serie di ispezioni in opifici a gestione cinese, in cui sono state rilevate irregolarità su orari, paghe e sicurezza.
L’obiettivo dei magistrati è capire se – e fino a che punto – le maison abbiano beneficiato di lavoro sfruttato e se i loro sistemi di controllo interno siano davvero in grado di intercettare gli abusi lungo la filiera.
Si tratta di brand di eccellenza, protagonisti di passerelle e vetrine del lusso.
Ma una parte delle loro collezioni continua a transitare in una rete di piccoli laboratori, spesso a gestione cinese, dove tra un passaggio e l’altro i diritti di chi lavora rischiano di sparire.
Su questo sito abbiamo già raccontato il caso Tod’s, finito sotto la lente della procura con la richiesta di amministrazione giudiziaria per presunta agevolazione colposa del caporalato nella catena dei fornitori e con un’udienza rinviata per permettere all’azienda di rafforzare i propri strumenti di controllo.
Quello che poteva sembrare un episodio isolato oggi appare come un precedente dentro un quadro che si allarga.
Il punto non è stilare una graduatoria dei marchi toccati dalle inchieste, ma prendere atto che, nelle carte giudiziarie, ricompare spesso lo stesso schema verticale.
In alto il brand che comunica valori, creatività e lusso responsabile, in basso una produzione spezzettata, compressa sui costi e spesso invisibile a chi sta fuori da quei capannoni.
Per capire dove si annida il caporalato di lusso basta seguire il percorso di un singolo prodotto
Per capire dove si annida il caporalato di lusso basta seguire il percorso di un singolo prodotto, da quando è un disegno su carta a quando arriva in negozio.
Un marchio affida parte della produzione a un fornitore diretto, contrattualizzato e riconoscibile.
Quel fornitore può a sua volta girare una o più fasi del lavoro (taglio, cucitura, rifinitura) ad altri laboratori, che spesso si appoggiano a ulteriori opifici per reggere tempi stretti e prezzi imposti.
Ogni passaggio aggiunge un margine per chi sta a monte.
Il prezzo pagato dal brand per il prodotto finito resta competitivo, mentre quello riconosciuto a chi lo produce scende fino al limite di ciò che è sostenibile per vivere.
Il risultato sono capannoni dove si lavora anche dodici ore al giorno per pochi euro a pezzo, con contratti irregolari o inesistenti, letti e brandine nello stesso spazio in cui si cuce e norme di sicurezza percepite come intralcio più che come condizione minima.
In un contesto di questo tipo la brillantezza del lusso etico si fa sempre più opaca
In questo contesto la brillantezza del lusso etico si fa sempre più opaca.
La scelta della procura di concentrarsi sul grado di coinvolgimento dei marchi e sulla tenuta dei loro modelli organizzativi interviene esattamente su questo punto.
Per anni il sistema si è retto su una sorta di alibi implicito, secondo cui ciò che succede all’ultimo livello della filiera sarebbe responsabilità esclusiva del titolare del laboratorio.
Il committente si limita a chiedere firme, certificazioni, relazioni rassicuranti e, se qualcosa va storto, la colpa è sempre di qualcun altro.
Oggi questa linea di separazione è sempre più difficile da difendere.
Non solo perché la magistratura prova ad allargarne i confini, ma anche per una questione di buon senso industriale: quanto è credibile un modello che costruisce valore sull’idea di qualità assoluta e, allo stesso tempo, non verifica davvero il prezzo umano di quella qualità? E ci aggiungiamo, si può sfilare rivendicando empowerment, inclusione, sostenibilità e poi considerare quasi inevitabile che una parte della catena regga su lavoratori senza voce e senza visibilità? Parliamoci chiaro: se il Made in Italy resta solo creatività, artigianato e “saper fare” raccontati in superficie, diventa solo una maschera.
Un racconto che celebra chi firma le collezioni e ignora chi le cuce non è solo incompleto, è falsato.
Caporalato nella moda, è la credibilità stessa del marchio-Paese che mettiamo in gioco
E non si tratta solo di diritti dei lavoratori: è la credibilità stessa di quel marchio-Paese che mettiamo in gioco.
Anche i consumatori sono coinvolti, pagando un sovrapprezzo di immagine per prodotti che, non di rado, hanno molta più sostenibilità nei claim di marketing che nella filiera che li produce.
Il Made in Italy tornerà ad avere senso solo quando la qualità del prodotto includerà anche la qualità del lavoro che c’è dietro.
Il Made in Italy oggi deve imparare a misurare la qualità anche sul lavoro, altrimenti la sua eccellenza rischia di finire in saldo.
di Serena Parascandolo
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