Francia – Italia
A guidare Louis Vuitton ora sarà l’italiano Pietro Beccari. In Italia si può fare business, purché non si cresca troppo
| Moda
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A guidare Louis Vuitton ora sarà l’italiano Pietro Beccari. In Italia si può fare business, purché non si cresca troppo
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A guidare Louis Vuitton ora sarà l’italiano Pietro Beccari. In Italia si può fare business, purché non si cresca troppo
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A guidare Louis Vuitton ora sarà l’italiano Pietro Beccari. In Italia si può fare business, purché non si cresca troppo
A dispetto della narrazione che vorrebbe l’Italia e le sue imprese terreno di conquista della Francia, un altro nostro manager, Pietro Beccari, è stato individuato per guidare una grande azienda francese. E che azienda: Louis Vuitton, uno dei marchi iconici non solo della moda mondiale ma dell’orgoglio francese. Beccari era già da cinque anni presidente e ceo di Christian Dior Couture, oltre che membro del Comitato esecutivo del colosso Lvmh. Se pensiamo che dallo scorso luglio a capo di Renault c’è un altro italiano, Luca De Meo, appare francamente arduo andare avanti con questa storia dell’Italia preda e della Francia predatrice.
In un sistema economico profondamente integrato come quello che ci vede protagonisti di una delle aree più ricche al mondo, è scontato che due Paesi vicini e in qualche misura complementari vivano di continui scambi azionari e soprattutto di cervelli e talenti. Questo, naturalmente, non significa che negli anni non si sia assistito a un progressivo trasferimento Oltralpe delle quote di controllo di tante aziende e non poche glorie del nostro Paese. Fa specie che a guidare Louis Vuitton ora ci sia un italiano, anche perché il più grande gruppo mondiale della moda – il già citato Lvmh di Bernard Arnault – è francese e molti dei brand che hanno contribuito alla storia dello stile di casa nostra ne sono stati assorbiti.
Proviamo a chiederci perché: secondo alcuni, in Italia si può fare business purché non si cresca troppo. Perché il nostro Paese non sarebbe terra di multinazionali e colossi. Una sciocchezza, smentita da chiunque abbia una conoscenza anche superficiale della storia industriale italiana e delle parabole di tanti marchi. Non c’è nulla di genetico, anche la leggendaria idiosincrasia dell’imprenditore italiano ad alleanze e fusioni sarebbe del tutto insufficiente a spiegare cosa sia accaduto. La verità è che il nostro sistema – dove per sistema si intende l’insieme delle condizioni oggettive in cui un’azienda si trova a crescere, svilupparsi e affrontare la sacrosanta concorrenza – non si è mai adattato all’evoluzione e allo spirito dei tempi. Le nostre grandi società hanno scelto in numero crescente di spostare le proprie sedi legali fuori dei confini (si pensi ai casi di scuola di Fca ex Fiat, Ferrero o Campari), finendo nel ridicolo tritacarne mediatico dell’accusa di voler “evadere le tasse”. Nessuna di queste aziende ha evaso alcunché, continua a produrre anche in Italia esattamente come prima e soprattutto a mantenere nel nostro Paese il cervello operativo e decisionale.
Allora perché? Perché il nostro diritto societario e la nostra giustizia non consentono ad aziende destinate a confrontarsi con i migliori al mondo nei propri settori di competere adeguatamente. Spostare la sede legale in Olanda o in Lussemburgo non comporta alcuna “furbizia” fiscale, ma consente una gestione più dinamica e rispondente al mercato di oggi rispetto alle norme italiane. Parliamo di gestione dei pacchetti azionari, dei voti in assemblea e in Consiglio di amministrazione, parliamo di ciò che permette a un’impresa di programmare a medio e lungo termine uno sviluppo non solo organico ma anche attraverso operazioni straordinarie come fusioni e acquisizioni. Mosse spesso di straordinaria complessità, rese ad altissimo rischio da leggi antiquate e dai tempi di una giustizia che a volte sembrano fatti apposta per far fuggire a gambe levate investitori. Italiani o stranieri che siano.
La nostra industria ha un oggettivo problema dimensionale, testimoniato dalla capacità di chiunque di elencare i pochi colossi a guida interamente italiana: Armani, Barilla, le già citate Ferrero e Campari, Leonardo ed Enel (entrambe però sono aziende a controllo pubblico). Non se ne aggiungono di nuove e non certo perché in Italia scarseggino il talento, la genialità imprenditoriale o l’altissima qualità manageriale, come dimostrato dagli esempi da cui siamo partiti.
La verità è che l’italico mix di norme, giustizia e fisco avrebbe schiantato qualsiasi sistema economico appena meno resistente e fantasioso del nostro.
Di Fulvio Giuliani
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