Pam Hogg, l’ultima ribelle della moda. Oggi il suo linguaggio ci parla più che mai.
Il 26 novembre è scomparsa Pam Hogg, una delle figure più radicali e libere della moda britannica. Una stilista che non è mai appartenuta davvero al sistema ma, al contrario, lo ha influenzato
Pam Hogg, l’ultima ribelle della moda. Oggi il suo linguaggio ci parla più che mai.
Il 26 novembre è scomparsa Pam Hogg, una delle figure più radicali e libere della moda britannica. Una stilista che non è mai appartenuta davvero al sistema ma, al contrario, lo ha influenzato
Pam Hogg, l’ultima ribelle della moda. Oggi il suo linguaggio ci parla più che mai.
Il 26 novembre è scomparsa Pam Hogg, una delle figure più radicali e libere della moda britannica. Una stilista che non è mai appartenuta davvero al sistema ma, al contrario, lo ha influenzato
Il 26 novembre è scomparsa Pam Hogg, una delle figure più radicali e libere della moda britannica. Una stilista che non è mai appartenuta davvero al sistema, ma che con la sua tenacia e la sua avanguardia lo ha influenzato molto più di quanto il sistema stesso abbia mai ammesso. Non si conosce con esattezza la sua età, ha sempre mantenuto un forte riserbo sulla propria biografia. Ciò che invece è certo è che, fino all’ultimo istante della sua esistenza, ha continuato a creare, cucire e immaginare abiti come estensioni della propria visione, senza compromessi, senza cali di tensione e soprattutto senza cedere alle logiche del mercato. Scozzese, cresciuta tra la Glasgow School of Art e il Royal College of Art, Hogg si è imposta nella Londra degli anni ’80 portando in passerella un’estetica più vicina alla performance art che alla moda commerciale.
Latex, catsuit scolpite sul corpo, colori acidi, geometrie taglienti, riferimenti alla club culture e al post-punk: il suo linguaggio era quello di una generazione che non voleva ritoccare le regole, ma frantumarle totalmente. Nel suo studio passavano amici e muse come Siouxsie Sioux, Debbie Harry, Kylie Minogue, Lady Gaga e Björk, tutte attratte da quell’equilibrio fragile e potentissimo tra vulnerabilità e ferocia che ne definiva la personalità, l’arte e la ribellione. Prima ancora che il dibattito sulla performatività dell’identità diventasse mainstream, lei lo portava già in scena con abiti che sfidavano lo sguardo, lo deviavano, lo rendevano quasi impotente.
Nei suoi tagli si avvertiva un’idea di femminilità indomabile, mai addolcita e mai smussata per piacere a qualcuno. Era una designer-artista nel senso più pieno, capace di costruire interi mondi, non semplici collezioni. Questa radicalità, però, aveva un prezzo. Hogg ha sempre scelto di restare fuori dalle dinamiche dei grandi gruppi e dalle produzioni in scala industriale, una rinnegata per vocazione. Ha lavorato con piccole squadre artigiane, spesso da sola, portando avanti un modello di indipendenza totale che era anche una forma di precarietà cronica.
Nonostante l’aura di culto che l’ha circondata negli ultimi anni e il ritorno in passerella alla London Fashion Week, il suo percorso è stato segnato da difficoltà produttive e finanziarie. Un paradosso che dice molto su come l’industria moda tratti chi non si allinea, preferisce celebrare l’immaginario, ma fatica a sostenere concretamente chi quell’immaginario lo rinnova davvero.
Hogg aveva intuito, molto prima di altri, la possibilità di un modo diverso di fare moda, più sperimentale, più sincero, più fragile e forse proprio per questo più necessario. Nelle sue creazioni convivono intuizioni visionarie che oggi tornano a risuonare dentro un settore che parla di sostenibilità, circolarità e riuso, ma spesso in un modo distante dalla realtà. Ed è proprio qui che l’eredità di Hogg ritorna con una forza sorprendente. Pam Hogg non faceva upcycling perché era di tendenza, lo ha sempre praticato per necessità, per coerenza e per autentica visione. Recuperava materiali, assemblava ciò che già esisteva, trasformava gli scarti in superfici nuove, lavorando con l’idea che ogni tessuto portasse dentro una storia e che il compito del designer fosse quello di continuare quella storia, non di cancellarla con il nuovo.
Diciamocelo con onestà, la sostenibilità oggi sembra scivolare sempre più nell’ennesimo esercizio di comunicazione. Una parola passepartout che rischia di svuotarsi a forza di ripeterla. Hogg, invece, ci ricorda – anzi, ce lo sbatte in faccia, come avrebbe fatto lei – che il riuso è prima di tutto un atto culturale oltre che una scelta politica. È la misura del valore che attribuiamo alle cose e al lavoro necessario per trasformarle. Non una strategia, dunque, ma una filosofia reale. E forse è proprio per questo che molte tendenze contemporanee sembrano tornare – consapevolmente o meno – sulle sue intuizioni. Designer che scelgono di non allinearsi lavorano esattamente su quell’eredità, dagli scarti nasce bellezza, e la “spazzatura” è tale solo se decidiamo di chiamarla così. Un messaggio che oggi risuona fortissimo. La trasformazione è evidente anche fuori dalle passerelle.
Siamo nel pieno del ritorno del DIY, la moda che si fa in casa, con le proprie mani. Siti che offrono cartamodelli da stampare sul tavolo del salotto, capi ispirati ai grandi designer realizzati nel tempo libero, l’uncinetto tornato mainstream tra borse, spille, top e accessori lavorati mentre si guarda un film su Netflix. E i grandi brand, intanto? Inseguono, spesso copiando quella creatività domestica perché a corto di idee. È una rivoluzione silenziosa, ma sempre più evidente, la spinta verso l’autoproduzione sta riscrivendo il rapporto tra chi crea e chi indossa.
Ed è proprio tornando a questa rivoluzione – fatta di mani, materiali, errori, tentativi e visioni – che la figura di Pam Hogg riprende forma. Perché lei ha sempre incarnato tutto questo: autenticità, radicalità, la capacità di andare oltre le righe senza mai chiedere permesso. E forse mancherà soprattutto a un’industria che ha sempre avuto bisogno di figure come lei, anche quando faceva finta di non vederle. Pam Hogg ha vissuto così, cucendo, riciclando e immaginando. Sempre ai margini del sistema, ma al centro di ciò che oggi chiameremmo innovazione. E forse è proprio da quel margine che la moda dovrebbe ricominciare a guardare.
Di Serena Parascandolo
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