L’autismo al femminile
L’autismo nelle donne non è facile da diagnosticare, in primis perché è facile incorrere in equivoci. Poi, perché è impensabile che i criteri diagnostici siano basati solo su tratti maschili.
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L’autismo al femminile
L’autismo nelle donne non è facile da diagnosticare, in primis perché è facile incorrere in equivoci. Poi, perché è impensabile che i criteri diagnostici siano basati solo su tratti maschili.
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L’autismo nelle donne non è facile da diagnosticare, in primis perché è facile incorrere in equivoci. Poi, perché è impensabile che i criteri diagnostici siano basati solo su tratti maschili.
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L’autismo nelle donne non è facile da diagnosticare, in primis perché è facile incorrere in equivoci. Poi, perché è impensabile che i criteri diagnostici siano basati solo su tratti maschili.
Sono autistica. Asperger, per la precisione. La diagnosi non è ancora stata formalizzata ma, a detta del neuropsichiatra a cui mi sono rivolta, non ci sono dubbi. Lo scopro adesso, a 46 anni, trascorsi a pensare che l’autismo fosse un’altra cosa. Autistica, per me, poteva essere Lisbeth Salander di “Uomini che odiano le donne”, hacker punk schiva e calcolatrice, oppure la protagonista di “Avvocata Woo”, una nerd con la camminata strana e la memoria prodigiosa. E invece scopro che autistica è anche Amélie, quella con gli occhioni grandi che vuole salvare il mondo. Ecco, io sono Amélie.
Per anni, l’autismo è stato associato a uno stereotipo ben preciso. La persona autistica era prima di tutto un bambino, sicuramente maschio, con disabilità cognitive o, al contrario, un genio della matematica. Un bambino privo di empatia, pieno di interessi bizzarri, emotivamente immaturo. Che esistessero donne nello spettro autistico era una possibilità statisticamente ovvia ma fino a poco tempo fa decisamente poco considerata, soprattutto se la diagnosi non arrivava precocemente.
Nel “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” (Dsm) – la Bibbia della psichiatria – l’autismo è ancora inserito tra le patologie dell’età evolutiva, tanto che gli psichiatri che si occupano di adulti spesso lo studiano poco o per nulla. Eppure l’autismo è un funzionamento, non una patologia che si esaurisce negli anni dell’infanzia e che si dissolve magicamente a trent’anni. Nasci e muori autistico e – considerato che fino a qualche anno fa le diagnosi erano molto rare perché le conoscenze erano limitate – va da sé che si dovrebbe continuare a diagnosticarlo anche in età adulta.
Nelle donne l’autismo prende più frequentemente la forma della cosiddetta Sindrome di Asperger o “autismo ad alto funzionamento”. In sostanza, persone nello spettro autistico senza disabilità cognitive, a volte addirittura ad alto potenziale intellettivo, in grado di mimetizzarsi così bene da rendere molto difficile la diagnosi. Un equivoco molto frequente in cui si cade quando si parla di autismo – e in cui ero caduta anche io – è che le persone autistiche non siano empatiche. In realtà non è proprio così.
Le persone nello spettro sono spesso molto sensibili, emotive, ansiose, in grado di appassionarsi a cause sociali e civili – Greta Thunberg insegna – percepite come questioni di vita o di morte. Quello che gli manca però è l’empatia cognitiva e cioè la capacità di leggere le situazioni e prevedere l’impatto emotivo delle loro azioni sugli altri. Non si tratta di essere senza sentimenti ma dell’impossibilità di leggere un codice che per altri è semplice e intuitivo. Come parlare un’altra lingua. La capacità di sentire la sofferenza o la gioia altrui – la cosiddetta “empatia emotiva” – è invece intatta, anzi spesso è più elevata rispetto alle persone neurotipiche. Una persona autistica si emoziona con gli altri perché sente la vibrazione emotiva ma non è in grado di leggere quelle stesse emozioni a livello cognitivo.
Per quanto oggi si sappia di più sulle donne “Aspie”, è ancora molto difficile arrivare ad una valutazione, prima di tutto perché i criteri diagnostici sono basati su tratti maschili. Per questo motivo non è infrequente che donne nello spettro vengano diagnosticate come bipolari, ossessivo-compulsive o maniaco-depressive. E se è vero che l’ipersensorialità tipica della neurodivergenza può favorire in queste persone patologie come l’ansia e la depressione, è impensabile che la terapia proposta possa funzionare se non si tiene conto della nostra neurodiversità.
di Maruska Albertazzi
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