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Ospedale Moscati di Avellino

L’ospedale che d’estate va in tilt

Chiuso il Pronto Soccorso dell’ospedale Moscati di Avellino. Le varie autorità, locali e regionali, ne discutono da sempre con l’abituale “scarica-barile” all’italiana
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L’ospedale che d’estate va in tilt

Chiuso il Pronto Soccorso dell’ospedale Moscati di Avellino. Le varie autorità, locali e regionali, ne discutono da sempre con l’abituale “scarica-barile” all’italiana
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L’ospedale che d’estate va in tilt

Chiuso il Pronto Soccorso dell’ospedale Moscati di Avellino. Le varie autorità, locali e regionali, ne discutono da sempre con l’abituale “scarica-barile” all’italiana
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Chiuso il Pronto Soccorso dell’ospedale Moscati di Avellino. Le varie autorità, locali e regionali, ne discutono da sempre con l’abituale “scarica-barile” all’italiana

«Ogn’anno, il due novembre, c’è l’usanza…», inizia così il celeberrimo componimento poetico del principe De Curtis, in arte Totò, dal titolo “’A livella”. Mutuando tale famosissimo incipit letterario si può affermare che ogni anno, in estate, si verifica una situazione estremamente sconcia ed ignominiosa all’ospedale Moscati di Avellino (considerato di alta specializzazione e di rilievo nazionale), con il suo Pronto soccorso.

Infatti, con cadenza regolare e puntualità quasi astronomica, il servizio di emergenza dell’unico nosocomio cittadino – già in perenne affanno e sovraffollato in modo permanente tutto l’anno – va completamente in black out e viene addirittura sostanzialmente chiuso. Sì, non è un errore di battitura: viene chiuso, smistando le ambulanze con il loro doloroso carico di esseri umani in altri ospedali. Fra l’altro, nemmeno vicini. Tutt’al più, vengono accettati solo i casi gravi, quelli cosiddetti da ‘codice rosso’, come connotati dalla fredda classificazione emergenziale medica.

All’interno – in locali tramutati in una sorta di lazzaretto del terzo millennio – i pochissimi medici debbono sobbarcarsi doppi e tripli turni per far fronte ad un numero esponenziale di pazienti, che non trovando collocazione nei reparti, vengono lasciati per lunghi ed interminabili giorni in una sorta di Malebolge, in condizioni umane ed igieniche estremamente severe, quasi drammatiche. L’intero ospedale è un’enorme cattedrale nel deserto (per la quale gli illustri progettisti avevano dimenticato di realizzare addirittura il parcheggio), con corridoi immensi simili alle highways americane a cui fanno da assurdo ed arcano pendant poche camere per i pazienti, ostentando una carenza assoluta di ogni senso logico architettonico ed edilizio di tipo funzionale.

La struttura del Pronto Soccorso, predisposta per ospitare una ventina di pazienti, ne accoglie più del doppio: quasi il triplo. Pertanto, alla sventura di un malanno si cumula l’ulteriore jattura di una carenza di assistenza sanitaria, svolta in condizioni estremamente precarie ed approssimative dal punto di vista organizzativo ed individuale. Quest’anno si è superato ogni record e con esso ogni limite: è stata chiusa anche la vitale divisione di Medicina d’urgenza, con precettazione dei medici afferenti a quel reparto, dirottati al Pronto soccorso. Non era mai accaduto. Di questa autentica vergogna se ne parla tutto l’anno: a vari livelli istituzionali ed in diverse sedi. Il solito valzer dei politici; l’abituale ‘scarica-barile’ all’italiana; le consuete sterili concioni. Ne discutono le varie autorità: locali e regionali, soprattutto i superpagati manager aziendali. Risultati: zero.

Del resto il sommo Manzoni (di cui quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della morte), in uno dei suoi passaggi più famosi del sommo capolavoro “I promessi sposi”, insegnava – ad imperitura memoria – che il fatto che le gride aumentassero stava a significare la loro inutilità. E la situazione non accenna a migliorare, né si intravedono soluzioni all’orizzonte. È quindi il caso di concludere con un’altra citazione di un famoso film con Totò – dal titolo “Destinazione Piovarolo” – nella cui scena finale il potente ministro di passaggio rassicura il capostazione (eterno aspirante al trasferimento) con queste fatidiche parole: «Vedremo! Si vedrà! Vedrò!». Di Antonio Leggiero

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