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Al cinema “Tutto l’amore che serve” di Anne-Sophie Bailly

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Come il silenzio che segue una confessione o il vuoto che precede un abbraccio: “Tutto l’amore che serve”, di Anne-Sophie Bailly, è un’opera che vive tra questi interstizi

Al cinema “Tutto l’amore che serve” di Anne-Sophie Bailly

Come il silenzio che segue una confessione o il vuoto che precede un abbraccio: “Tutto l’amore che serve”, di Anne-Sophie Bailly, è un’opera che vive tra questi interstizi

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Al cinema “Tutto l’amore che serve” di Anne-Sophie Bailly

Come il silenzio che segue una confessione o il vuoto che precede un abbraccio: “Tutto l’amore che serve”, di Anne-Sophie Bailly, è un’opera che vive tra questi interstizi

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Come il silenzio che segue una confessione o il vuoto che precede un abbraccio: “Tutto l’amore che serve”, di Anne-Sophie Bailly, è un’opera che vive tra questi interstizi. Parla di un amore che non si piega alle regole, che inciampa e cade, ma non smette mai di tendersi verso l’altro. È il racconto di una simbiosi – quella tra Mona (interpretata da una straordinaria Laure Calamy) e suo figlio Joël (impersonato con la giusta intensità da Charles Peccia-Galletto) – così forte da diventare un muro, un nodo, una zavorra e infine un passaggio di testimone.

Mona è una madre single, ferocemente viva, capace di oscillare tra dolore e dignità con naturalezza. Suo figlio Joël ha una disabilità cognitiva che lo rende ‘lento’ in un mondo ossessionato dalla velocità. Ma Joël è capace di vivere, sorridere e amare come tutti gli altri. Ama Océane (interpretata con dolcezza da Julie Froge), una collega anche lei con disabilità, e quel sentimento puro e determinato diventa detonatore. Quando Mona scopre che Océane è incinta, il fragile equilibrio della sua esistenza implode. Il suo amore esclusivo per Joël si scontra con la sua autodeterminazione. Il figlio non è più solo suo. E quella separazione, necessaria e universale, dura ma liberatoria, diventa il cuore pulsante del film.

Il montaggio ritmato non taglia via le emozioni ma conserva lo spazio per gli sguardi, per le esitazioni, per la poesia minuta dei gesti quotidiani. La macchina da presa resta vicina ai corpi, li accompagna senza giudicarli. La regista Bailly sembra dirci che la disabilità non è il centro del discorso ma il prisma attraverso cui rivedere tutto ciò che credevamo di sapere su maternità, indipendenza e amore. In questa luce nuova anche la fragilità diventa forza e la lentezza si fa presenza. La pellicola non nomina diagnosi, ma nasce da un ascolto profondo della realtà. Sia Charles Peccia-Galletto che Julie Froger sono attori con disabilità, ma non interpretano sé stessi. La loro autenticità risiede proprio nella distinzione tra la persona e il personaggio, tra disabilità e identità. Un’etica dello sguardo che Bailly difende con fermezza.

La regista attinge al realismo emotivo dei fratelli Dardenne e alla tensione tragico-sensuale di Cassavetes, ma senza ricalcarne grossolanamente lo stile. Le ispirazioni cinematografiche vanno da “Alice non abita più qui” di Martin Scorsese a “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher. Ma infine “Tutto l’amore che serve” trova una voce propria: quasi documentaristica nell’osservazione e poetica nell’intenzione. Anne-Sophie Bailly isola i suoi personaggi con teleobiettivi negli esterni, quasi a proteggerli, come se anche lo spazio dovesse rispettare il loro tempo interiore. Un rispetto che passa anche dalla assoluta mancanza di retorica.

Il film affronta temi delicati e scivolosi – la genitorialità nella disabilità, il “dopo di noi”, il diritto all’amore e alla sessualità – con uno sguardo lucido ma non ideologico. Bailly non cerca di rassicurare né di scandalizzare. Evita il pietismo come il sensazionalismo e firma un’opera carica di tensione emotiva, sensualità e sfumature sottili. Ci mostra una madre che vuole preservare una propria individualità – e timidamente ha ancora il coraggio di desiderare – e un figlio che vuole scegliere da solo cosa fare della propria vita, anche se questo potrebbe significare commettere errori. Il passaggio di consegne tra Mona e Joël non è un’esplosione o un grido, ma un lento allentarsi della presa.

L’amore a volte è saper lasciare andare. Ognuno vive nell’equilibrio precario tra bisogno e libertà, tra cura e separazione. Ed è in questo equilibrio che Bailly trova la sua lirica sociale: concreta (francese) e umana. “Tutto l’amore che serve” parla a tutti, come le poesie che non hanno paura di sporcarsi le mani né di far sorridere e commuovere, all’improvviso.

di Edoardo Iacolucci

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