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Almodóvar ne “La stanza accanto”

Andarsene per scelta

L’eutanasia secondo Almodóvar ne “La stanza accanto”, il film vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia – IL VIDEO

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L’eutanasia secondo Almodóvar ne “La stanza accanto”, il film vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia – IL VIDEO

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L’eutanasia secondo Almodóvar ne “La stanza accanto”, il film vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia – IL VIDEO

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L’eutanasia secondo Almodóvar ne “La stanza accanto”, il film vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia – IL VIDEO

Perché non possiamo decidere quando morire? Morire con dignità. Senza sentire dolore. Scegliere di addormentarci prima che il nostro corpo venga divorato da un cancro, come quello di Martha (l’attrice Tilda Swinton) protagonista dell’ultimo film di Pedro Almodóvar: “La stanza accanto”, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso settembre. Tu che cosa faresti se una tua amica ti chiedesse di accompagnarla a morire? Se ti pregasse di stare ‘nella stanza accanto’ nel momento in cui decide di concludere la sua vita con decoro, nel modo e nel luogo che desidera? È impossibile non immedesimarsi con quello che vive Ingrid (impersonata da Julianne Moore), una nota scrittrice che si trova a New York per presentare il suo ultimo libro, quando Martha – l’amica che non vedeva da tempo – le chiede se possa essere lei ad abitare la stanza accanto alla sua: quella in cui desidera porre fine alla sua vita con una pillola acquistata illegalmente nel dark web. Dice Martha: «Quando troverai la porta chiusa sarò andata via». Morta. Una porta rosso rubino, difficile da togliersi dalla testa anche nei giorni dopo aver visto il film.

Quella porta, tinta di rosso vivo, ritorna. Diventa l’oggetto di confine che fa da sfondo a un appello di sonno eterno. Almodóvar fa rotta verso uno scenario distante da quello consueto e si addentra nel raggelante tema dell’eutanasia. Le due amiche partono per un luogo immerso nella natura. Martha cerca pace e calma, un territorio nuovo, perché «è sempre un errore tornare nei posti dove sei stato davvero felice» dice. E non ha ragione? Le due donne iniziano una convivenza avvolte dai colori, nuance più accese che mai: dal verde, al giallo, all’arancione, indossano indumenti dal viola ametista al blu elettrico, molto vitali, come in antitesi con l’origine della scelta di Martha che cammina verso il suo ultimo giorno di vita con una grinta che lascia sbigottiti. Cadono fiocchi di neve rosa intorno alla casa avvolta dagli alberi, dove le due amiche si fanno sempre più intime e vicine, si anima una specie di poesia tra le loro risate, il loro modo di parlarsi, di dividere il divano dove guardano i film fino all’alba, intanto che cresce la tensione per quella porta che noi – come Ingrid – non sappiamo quando si chiuderà. «Il cancro è una battaglia tra il bene e il male» dice Martha, reporter di guerra del “The New York Times” ormai emaciata, sempre più pallida, con i lineamenti del volto che sembrano assottigliarsi sempre di più, così come il resto del corpo. E continua: «Il cancro non può prendermi, se mi prendo prima io!». Come darle torto.

Quantomeno, come non soffermarsi a comprendere il suo ultimo desiderio? In uno sfondo che richiama continuamente “Gente di Dublino” di James Joyce, il regista spagnolo – due volte premio Oscar – ci invita a riflettere sulla nostra libertà, così orribilmente intrappolata dalle dinamiche che vietano di andare incontro alla morte con la propria visione, nel modo in cui desideriamo che il nostro corpo e la nostra mente vivano l’ultimo respiro, quando l’alternativa sarebbe quella di deteriorarsi nella malattia, consumarsi fino a non riconoscersi più, perché nell’agonia «non si ha il controllo di sé stessi», sostiene Martha. Con un rossetto scarlatto sulle labbra, vestita con un completo giallo limone, addormentata, esanime su un lettino baciato dal sole dell’inverno più benevolo e lucente, alla fine Martha Hunt sembra un’opera d’arte.

Di Hilary Tiscione

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