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Venditti

Antonello Venditti, se l’arancia rosseggia ancora

A quattordici anni, mentre frequenta il Liceo classico “Giulio Cesare”, Antonello Venditti scrive “Roma Capoccia”

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Antonello Venditti, se l’arancia rosseggia ancora

A quattordici anni, mentre frequenta il Liceo classico “Giulio Cesare”, Antonello Venditti scrive “Roma Capoccia”

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Antonello Venditti, se l’arancia rosseggia ancora

A quattordici anni, mentre frequenta il Liceo classico “Giulio Cesare”, Antonello Venditti scrive “Roma Capoccia”

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A quattordici anni, mentre frequenta il Liceo classico “Giulio Cesare”, Antonello Venditti scrive “Roma Capoccia”

A quattordici anni, mentre frequenta il Liceo classico “Giulio Cesare”, Antonello Venditti scrive “Roma Capoccia”. Qualche tempo dopo, intorno al 1969, comincia a esibirsi nel leggendario locale Folkstudio (nel 1962 vi era passato anche un Bob Dylan alle prime armi, capellone e pensoso) con un altro assiduo frequentatore: un certo Francesco De Gregori. Agli inizi degli anni Settanta i due giovani artisti si ritrovano presso l’etichetta musicale It e decidono di incidere un album insieme. Spiegherà lo stesso De Gregori: «Facemmo sodalizio io e Antonello poiché eravamo arrivati a un giorno di distanza a firmare lo stesso contratto con la stessa casa discografica. Al Folkstudio eravamo tutti gelosi: se uno aveva la possibilità di firmare un contratto, non lo diceva all’altro. E quindi con molta sorpresa e con molto sospetto ci incontrammo lì… Poi facemmo questo disco in due perché così risparmiavano la metà dei soldi».

Il long playing, distribuito nel maggio del 1972, è intitolato “Theorius Campus” (un’espressione inventata di sana pianta, un nonsense), esattamente come l’omonimo duo. Delle dodici tracce soltanto un paio sono accreditate a entrambi, “Vocazione 1 e ½” e “In mezzo alla città”. La canzone migliore di De Gregori è probabilmente “Signora Aquilone”, mentre Venditti presenta come cavalli di battaglia la già nota “Sora Rosa” e “Roma Capoccia”. «Quanto sei grande Roma quand’è er tramonto, / quando l’arancia rosseggia ancora sui sette colli / e le finestre so’ tanti occhi / che te sembrano di’ quanto sei bella. // Oggi me sembra che er tempo se sia fermato qui: / vedo la maestà der Colosseo, / vedo la santità der cupolone / e so’ più vivo e so’ più bbono». Inno aere perennius alla città eterna contornato di elegia ed esistenzialismo, “Roma Capoccia” – con il suo mix inconfondibile di dialetto e italiano lirico – è pubblicata come singolo sul lato B di “Ciao uomo” e riscuote un discreto successo nei programmi radio (in particolare Supersonic, in onda su Radio Due).

Nonostante la sentita adesione alle fulgide bellezze della Capitale, il pezzo sembra voler manifestare in controluce le contraddizioni del luogo amato: «Roma capoccia der mondo infame». Peraltro, un elemento fondamentale nella poetica di Venditti è proprio il potere salvifico/demonico della femminilità: la donna (e la città si configura come una donna in “Roma Capoccia”) è latrice di redenzione e dannazione per l’artista che devotamente la canta. Un simile aspetto è ravvisabile persino nell’ultimo singolo di Venditti, “Di’ una parola”, pubblicato il 10 maggio per lanciare il disco celebrativo “Cuore 40th Anniversary Edition” in uscita il prossimo 14 giugno per Heinz Music/Sony Music Italy. «Ma dì una parola se non vuoi più, / quella che voglio sei solo tu. / Dovunque andrai sarai sempre tu, / l’unica donna che non sei tu. // Lo so la vita è così: / è cadere, rialzarsi e non chiedersi più». Ancora una volta è esemplare l’unicità di un tu, lontano e difficilmente raggiungibile: il tu della vita del cantautore romano, sospeso nelle brume di una negazione d’acciaio.

di Alberto Fraccacreta 

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