Gli attori si scagliano contro i coordinatori di intimità
Una straziante novità imposta dal #MeToo sono i coordinatori di intimità sui set cinematografici, una sorta di polizia morale contro cui si sono già schierati diversi attori

Gli attori si scagliano contro i coordinatori di intimità
Una straziante novità imposta dal #MeToo sono i coordinatori di intimità sui set cinematografici, una sorta di polizia morale contro cui si sono già schierati diversi attori
Gli attori si scagliano contro i coordinatori di intimità
Una straziante novità imposta dal #MeToo sono i coordinatori di intimità sui set cinematografici, una sorta di polizia morale contro cui si sono già schierati diversi attori
A partire dal 2024 per partecipare agli Oscar sarà necessario avere un protagonista o un co-protagonista appartenente a minoranze razziali (asiatico, ispanico-latino, nero-afroamericano, indigeno-nativo dell’Alaska, mediorientale-nordafricano, nativo delle Hawaii o di altre isole del Pacifico et cetera) oppure tra cast e team produttivo almeno il 30% di persone appartenenti alle categorie sottorappresentate: donne, gay, lesbiche, trans e così via. Senza dimenticare i premi gender neutral della Berlinale o la battaglia per le quote rosa nei principali festival internazionali. Queste sono soltanto alcune delle folli ripercussioni del politicamente corretto nel mondo del cinema.
Una delle ultime strazianti novità legate indissolubilmente all’esplosione del #MeToo riguarda i cosiddetti coordinatori di intimità. Parliamo di “facilitatori del benessere sul set”, in altri termini di poliziotti che monitorano la buona condotta durante le riprese. Una professione crescente (considerando il clima attuale) ma dall’utilità pressoché nulla: le sequenze sono sempre scritte e concordate prima dell’arrivo sul set. Chi è a disagio può tirarsi indietro prima di arrivare davanti alla macchina da presa.
L’unico apporto dei coordinatori di intimità può essere quello di togliere spontaneità agli attori, trasformando l’interpretazione in un mero esercizio tecnico. Una sensazione confermata timidamente da alcuni attori, a partire da Sean Bean e Toni Collette. In una recente intervista al sito “Indiewire”, l’attrice di “Unbelievable” ha ammesso: «Devo dire che in un paio di scene e in diversi lavori mi è stato offerto un coordinatore dell’intimità. […] Ma mi sentivo così connessa e al sicuro con i miei partner che il coordinatore dell’intimità si è sentito quasi fuori posto come se stesse invadendo tutto il processo creativo. Quindi ho preferito farne a meno, perché non sentivo di averne bisogno. Spesso rovinano solo le scene con la loro presenza».
L’ultima a prendere posizione è stata Mia Hansen-Løve. Il giudizio della cineasta francese è tranchant: i coordinatori di intimità sono paragonabili a una sorta di polizia morale. «Finché non sarò costretta non li userò», la sua promessa forse politicamente scorretta ma ricca di buon senso. Interpellata dal quotidiano britannico “The Guardian”, la regista de “Sull’isola di Bergman” ha rincarato la dose: «Non ho mai avuto nessun tipo di problema. Non ho mai costretto nessun attore a fare qualcosa. Tutto viene discusso in precedenza e avviene in modo molto fluido. Quindi per me i coordinatori dell’intimità non sono necessari. Se fossi costretta ad avere una sorta di polizia morale sul set, preferirei non filmare quelle scene. Capisco che alcune persone potrebbero sentirsi rassicurate, ma è molto lontano dall’esperienza dei miei set cinematografici». Parole importanti, pronunciate con la consapevolezza di correre il rischio di scatenare polemiche e per questo ancora più necessarie.
Di Massimo Balsamo
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