Auguri (non) compagno Dirk
Il 26 novembre compiva gli anni Dirk Michaelis, l’autore di una canzone rappresentativa della caduta del muro di Berlino, che ha raccontato però solo una parte di verità di quel fatto storico. Inno di una popolazione che somiglia tanto a quella di Roma.

Auguri (non) compagno Dirk
Il 26 novembre compiva gli anni Dirk Michaelis, l’autore di una canzone rappresentativa della caduta del muro di Berlino, che ha raccontato però solo una parte di verità di quel fatto storico. Inno di una popolazione che somiglia tanto a quella di Roma.
Auguri (non) compagno Dirk
Il 26 novembre compiva gli anni Dirk Michaelis, l’autore di una canzone rappresentativa della caduta del muro di Berlino, che ha raccontato però solo una parte di verità di quel fatto storico. Inno di una popolazione che somiglia tanto a quella di Roma.
AUTORE: Paolo Fusi
Il 26 novembre è stato il sessantesimo compleanno di Dirk Michaelis, l’autore della più bella e famosa canzone della storia della Ddr, “Als ich fortging” (“Quando sono andato via”). Una canzone struggente, suonata da una band (Karussell) che negli anni ha cambiato nome più volte, inseguita com’era dagli strali della censura, e che agli inizi era la PFM dell’Est Europa – ragazzi dai capelli lunghi, rovinati da anni di persecuzioni e poi dimenticati dalla nuova Germania unita che ha imposto i miti occidentali. Una delle decine di volte in cui sono andato a sentire un suo concerto, lui suonava in un pavillon fiorito di una piccola località termale del Brandeburgo e aveva di fronte poche centinaia di persone che cantavano in coro le sue canzoni. Dirk si prendeva in giro: «Buonasera Templin! Come dice mia nonna, da quando è caduto il Muro giro davvero il mondo intero!».
La canzone, come spesso nella Ddr, sembra parlare d’amore ma è altro. Racconta della paura e del dolore delle decine di migliaia di cittadini che sono scappati verso Ovest, convinti (come canta Bennato in “Franz è il mio nome”) di trovare il Paese dei Balocchi e che invece sono stati accolti come migranti fastidiosi, costretti a lavorare per anni in quartieri-ghetto, in una condizione di ‘senza patria’ simile a quella dei meridionali che arrivavano a Milano e Torino negli anni Cinquanta. La storia scritta dai vincitori non tiene conto di costoro, racconta solo dei carnefici della Stasi, degli atleti del doping e dei milioni di persone che hanno cercato di convivere con il regime e non se la sono sentita di mollare tutto e tutti. Non racconta di coloro che marciarono disarmati contro l’esercito di Honecker, che si riunivano nelle cantine delle chiese e che poi, festanti, in una notte indimenticabile presero a martellate il Muro. Non racconta di come fossero spaesati e sgomenti quando si sono accorti di essere stati fregati: la parità l’hanno avuta i loro figli, ma loro hanno avuto solo sfottò e disoccupazione.
Per questo la canzone di Dirk, negli anni, ha acquisito un significato sempre crescente: perché è l’inno di questi stupendi perdenti, che amo come fossero la mia famiglia, perché li capisco fin troppo bene, perché la somiglianza tra loro e la Roma della mia gioventù è fatalmente grande. «Quando sono andato via la strada era ripida e mi dicevo: torna indietro (…) Dille ciò che comunque già sa: nulla è infinito, quindi ammettiamolo, resta piccolo e debole (…) La fiamma si spegne se non la alimenti, guarda come sta succedendo anche in te… Quando sono andato via, le mie braccia erano vuote e volevo tornare indietro, volevo che le cose fossero più facili, non così difficili (…) Niente dura e in fondo nessuno lo vuole, anche il dolore di ciascuno diventa debole e piccolo». Buon compleanno, Dirk.
di Paolo Fusi
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