Bob Dylan, giovane per sempre
Bob Dylan ha ricevuto un Oscar, un premio Pulitzer e un premio Nobel. Non ce l’avrebbe fatta neanche Petrarca, con ogni probabilità
Bob Dylan, giovane per sempre
Bob Dylan ha ricevuto un Oscar, un premio Pulitzer e un premio Nobel. Non ce l’avrebbe fatta neanche Petrarca, con ogni probabilità
Bob Dylan, giovane per sempre
Bob Dylan ha ricevuto un Oscar, un premio Pulitzer e un premio Nobel. Non ce l’avrebbe fatta neanche Petrarca, con ogni probabilità
Bob Dylan ha ricevuto un Oscar, un premio Pulitzer e un premio Nobel. Non ce l’avrebbe fatta neanche Petrarca, con ogni probabilità
Bob Dylan ha compiuto ottantatré anni il 24 maggio scorso. Il 19 luglio 2006 venne a Foggia per un concerto del suo Never Ending Tour. Ci andai con mio fratello. Alla fine, riuscii a strappargli un autografo gridando stucchevolmente «Bob, Bob!» con uno steward che mi redarguiva in foggiano e io che accarezzavo la spalla del vate di Duluth in segno di gratitudine. La prima volta che sentii parlare di lui fu in occasione del XXIII Congresso Eucaristico Nazionale a Bologna nel 1997, quando fu invitato da Giovanni Paolo II e cantò “Knockin’ On Heaven’s Door”. Ai miei occhi di bambino il suo dirigersi verso il papa mentre la band suonava a rompicollo sembrò qualcosa di insigne, di arcano. (A rivedere il video, per poco non ruzzola a terra inciampando su un gradino.) Il primo contatto più approfondito fu con “Blowin’ In The Wind”, ascoltata in macchina con mio padre prima di andare a scuola. La voce pareva venuta da un altro mondo. Un anziano ventenne.
Comprai immediatamente la collezione “The Essential” (Columbia, 2000) in cui figuravano tutti i maggiori successi. In un compito d’italiano, preso da raptus dylanesco, scrissi senza apparente ragione: «Johnny scende giù in cantina a mescolar la medicina», che non era altro che l’incipit di “Subterranian Homesick Blues”, la prima canzone rap nella storia della musica. La professoressa, in dubbio se fossi un genio o un pazzo, mi diede un bel nove.
Nel corso della sua carriera la voce di Dylan è stata: senile e imberbe (“The Freewheelin’ of Bob Dylan”), metallica e insolente (“Highway 61 Revisited”), sciropposa (“Nashville Skyline”), perfettamente ironica (“Blood on the Tracks”), rimbombante nel cranio (“Infidels”), acquitrinosa (“Oh Mercy”), biblica ma ansante (“Time Out of Mind”), multifilter (tutti gli ultimi album). In buona sostanza, una voce quasi sempre (volutamente) irritante e poco melodica, disturbante, interferente. Tutto abilmente computato.
Dylan ha ricevuto un Oscar, un premio Pulitzer e un premio Nobel. Non ce l’avrebbe fatta neanche Petrarca, con ogni probabilità. Quando Obama lo ha insignito della Medal of Freedom è rimasto in un’aula illuminata artificialmente con gli occhiali da sole sul naso. (Quando però si è presentato davanti a Giovanni Paolo II, per fortuna ha tolto il cappellone texano.) Lo hanno chiamato invano per comunicargli del conferimento del Nobel. È dovuto intervenire il suo agente, dicendo: «Risponderà…». Stanno ancora aspettando. (No, scherzo. Alla fine, è andato a Stoccolma e nel discorso di accettazione ha rivelato che non aveva mai pensato di fare della letteratura.)
Per tre anni è stato cristiano convinto, poi è tornato alla fede ebraica: ora crede nella musica. Dal 1989 suona ininterrottamente in giro per il mondo (soltanto il Covid lo ha fermato). Le canzoni più belle solitamente le esclude dagli album (vedi “Series Of Dreams” e “Born In Time”). Ha reso l’armonica a bocca un oggetto di culto. Su Internet girano certi suoi aforismi caustici, del tipo: «Per essere un poeta non è necessario scrivere. Ci sono poeti che lavorano nelle stazioni di servizio. Non mi definisco un poeta perché non amo quella parola. Sono un artista del trapezio». Oppure: «Quelle che canto io non sono canzoni di protesta, sono brani matematici». Il suo senso di estraneità dal mondo è semplicemente meraviglioso: vedere il backstage di “We Are The World” per credere. Ha scritto pezzi di grande intensità spirituale come “Ring Them Bells”. Un romanzo in stile beat, “Tarantula”. Cos’altro farà ancora? È ovvio: la risposta soffia nel vento.
di Alberto Fraccacreta
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