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Civil War, l’America si divide in sala

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A meno di un mese dall’uscita nelle sale, “Civil War” sta attirando l’attenzione degli spettatori (molti più del previsto) e oscurando titoli ben più attesi

Civil War

Civil War, l’America si divide in sala

A meno di un mese dall’uscita nelle sale, “Civil War” sta attirando l’attenzione degli spettatori (molti più del previsto) e oscurando titoli ben più attesi

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Civil War, l’America si divide in sala

A meno di un mese dall’uscita nelle sale, “Civil War” sta attirando l’attenzione degli spettatori (molti più del previsto) e oscurando titoli ben più attesi

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Quando nei primi anni Ottanta il pubblico americano si confrontò per la prima volta con film quali “The Day After” e “Red Dawn”, la sua reazione fu quasi istintiva: dividersi e dibattere perché profondamente colpito da ciò che aveva visto, a prescindere da quanto fosse realistico. A meno di un mese dall’uscita nelle sale, “Civil War” sta causando lo stesso effetto attirando l’attenzione degli spettatori (molti più del previsto) e oscurando titoli ben più attesi. Stavolta però gli Stati Uniti non sperimentano attacchi catastrofici o invasioni dall’esterno, ma affrontano le dinamiche di un conflitto fratricida, incubo d’Oltreoceano per antonomasia.

La guerra è raccontata attraverso gli occhi (e gli scatti) di un’esperta photoreporter – magistralmente interpretata da Kirsten Dunst – e di una ragazza cresciuta nel suo mito (impersonata da Cailee Spaeny). Le scene sono crude, non edulcorate e alcuni elementi utili per comprendere come siano scoppiate le ostilità sono nascosti in varie parti del film, ma non soddisfano appieno le curiosità della platea. Anche questo tema è motivo di dibattito, specie per chi cerca riferimenti all’attualità e si contorce tra gli apparenti paradossi degli schieramenti in campo. La fazione secessionista più potente è guidata da Texas e California, Stati agli antipodi per tradizione politica e modi di essere: il primo bastione conservatore e repubblicano, il secondo roccaforte progressista e democratica (almeno nelle sue città più grandi e popolose). Si sono sollevati contro le ambizioni anticostituzionali del presidente in carica, la cui figura ha scatenato feroci discussioni: molti ritengono sia un rimando a Donald Trump, dividendo ulteriormente gli spettatori tra quanti elogiano i presunti allarmi sul tycoon lanciati da Alex Garland e chi invece accusa quest’ultimo di essere entrato a gamba tesa nella campagna elettorale, cercando di spaventare gli americani. Altri hanno creduto di vedere – nella debolezza del commander-in-chief cinematografico – le difficoltà attuali di Biden.

L’eco dell’opera è tale che ha persino generato alcune teorie cospirazioniste secondo cui gli autori del film sarebbero a conoscenza di piani per una futura guerra civile e vorrebbero quindi preparare i cittadini a quanto accadrà a breve. Non pochi si sono chiesti se fosse opportuno che una pellicola simile uscisse proprio ora, a pochi mesi dalle più incerte presidenziali degli ultimi decenni e in un clima segnato da polarizzazione e violenza armata, quasi un preludio dei fatti mostrati.

Senza dubbio questo film parla in primo luogo agli americani: diversamente da altri lavori, non ci sono cenni espliciti alla situazione in Europa o in altri Paesi. Tutto l’interesse è rivolto alle vicende di una nazione fittizia ma attuale, che non si spacca fra l’elefantino e l’asinello (o fra Nord e Sud) ma di cui – tra le tante scene brutali – riconosciamo i tratti e le contraddizioni: la ‘cultura delle armi’ e il loro uso smodato, le vendette personali, il razzismo – in risalto la breve ma significativa interpretazione di Jesse Plemons – e la pretesa di far finta di niente mentre tutto attorno brucia, metafora di un isolazionismo mai sopito. È soprattutto un Paese distrutto che deve vedersela con le conseguenze della guerra, abitato da civili abbandonati a loro stessi. Sapere chi l’abbia causata, nella consapevolezza che chiunque potrebbe aver sparato per primo, perde importanza. Forse è qui che si cela la vera provocazione del regista: ne varrebbe comunque la pena?

di Federico Mari

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