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“Dead Poets Club”, musica e AI per dar voce ai poeti del passato

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Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Roberto Turatti sul progetto “Dead Poets Club” che unisce musica e intelligenza artificiale

Dead Poets Club

“Dead Poets Club”, musica e AI per dar voce ai poeti del passato

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Roberto Turatti sul progetto “Dead Poets Club” che unisce musica e intelligenza artificiale

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“Dead Poets Club”, musica e AI per dar voce ai poeti del passato

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Roberto Turatti sul progetto “Dead Poets Club” che unisce musica e intelligenza artificiale

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Da qualche settimana è disponibile in digitale “The Fly”, il primo brano del progetto “Dead Poets Club”, un esperimento musicale che unisce arte, tecnologia e poesia. Il singolo rappresenta il punto di partenza di un percorso che esplora il dialogo tra intelligenza artificiale e produzione musicale, dando nuova voce ai grandi poeti del passato.

L’iniziativa nasce da un’idea di Fulvio Muzio (compositore e membro dei Decibel), Roberto Turatti (DJ, produttore e figura storica della musica italiana) e Giovanni Favero (pioniere nell’uso dell’intelligenza artificiale applicata alla musica), in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca – Dipartimento di Informatica, Sistemistica e Comunicazione e lo spin-off Whattadata.

All’interno di un vero e proprio laboratorio sperimentale, il team ha lavorato alla valutazione e all’utilizzo creativo dei principali software professionali di intelligenza artificiale, trasformando la poesia di William Blake in un’esperienza sonora inedita, dove la macchina diventa strumento di ispirazione, non sostituto della creatività umana.

Ne abbiamo parlato con Roberto Turatti, che ci ha raccontato come è nata l’idea, quali sfide si celano dietro la collaborazione uomo-macchina e perché, secondo lui, l’intelligenza artificiale non è un pericolo, ma una nuova opportunità per la musica.

Come nasce l’idea di un progetto come questo?

L’idea non è nata per caso. È da circa un anno e mezzo che realizzo video, cartoni animati e canzoni usando l’intelligenza artificiale, soprattutto per bambini, quindi con molta attenzione ai contenuti. Poi ho incontrato Giovanni, che voleva organizzare una serata in cui presentavo il mio libro “Cinquanta anni di musica e sentimenti”. Durante quella chiacchierata mi ha chiesto cosa stessi facendo e gli ho parlato dei miei esperimenti con l’IA.

Mi ha detto che anche lui stava lavorando a qualcosa di simile: aveva messo in musica una poesia di William Blake con una sua melodia, usando un programma diverso dal mio. L’ho ascoltata e gli ho detto: “Non mi piace molto, ma l’idea è interessante”. Così gli ho proposto di fare una prova. Ho rielaborato il brano con un altro arrangiamento, gliel’ho mandato e lui ne è rimasto colpito. A quel punto ha chiamato Fulvio Muzio, che voleva sperimentare su progetti simili con le poesie.

Fulvio Muzio dei Decibel, giusto?

Esatto. Lui oggi fa parte dei Decibel, mentre io sono stato il primo batterista del gruppo, ai tempi con Enrico Ruggeri. Non avevo mai lavorato con Fulvio, quindi ero anche curioso. Da lì è nata l’idea di prendere poesie di autori non più in vita da oltre 70 anni, per evitare problemi di copyright, e musicarle con l’aiuto dell’intelligenza artificiale.

Loro hanno scelto poesie che metricamente si adattavano bene alle melodie. Io invece ho fatto un po’ da producer, come un DJ, selezionando le melodie che mi sembravano più interessanti. Poi ho lavorato con l’IA per sviluppare i brani, che sono stati successivamente completati con strumenti veri, perché crediamo che l’intelligenza artificiale da sola non basti.

In che senso “non basta”?

Se ti limiti a dire all’IA “fammi una canzone rock o pop”, lei ti dà risultati banali, sempre due più due uguale quattro. Ma se impari a guidarla bene puoi ottenere contaminazioni interessanti. E comunque nel nostro progetto c’è sempre un forte intervento umano.

Quindi le voci che si sentono nei brani sono artificiali?

Sì, per ora i cantanti sono generati con l’intelligenza artificiale, ma il nostro obiettivo è rifare tutto anche in studio, con voci reali, magari in collaborazione con altri artisti. È un progetto che vuole unire tecnologia e umanità.

So che sono un coinvolgimenti anche degli studenti universitari, giusto?

Sì, l’Università Bicocca è entusiasta del progetto. Vogliono studiare queste nuove tecnologie applicate alla musica e ai video. I video li realizzo io insieme a loro: partiamo da uno storyboard condiviso e poi li sviluppo. Al momento abbiamo tre video su sette pronti. Non vogliamo fare hit da classifica. L’obiettivo è far capire che l’intelligenza artificiale non è un demone, ma uno strumento collaborativo per musicisti, arrangiatori e produttori. È un mezzo di velocità e di sperimentazione, non un sostituto dell’essere umano.

Quindi per te l’IA è un aiuto, non una minaccia?

Esatto. Io la chiamo una “deficienza artificiale” in senso ironico: fa calcoli velocissimi, ma non crea da sola. È utile perché accelera i processi. Se voglio un arrangiamento funky senza fiati, glielo scrivo e lo ottengo subito. Poi lo modifico finché non rispecchia la mia idea. Con un musicista reale servirebbero più tempo e budget. Ti permette di testare rapidamente nuove strade. Ad esempio, anni fa ho messo un riff latino in un brano house: all’inizio sembrava una follia, ma dopo dieci anni è arrivato a due milioni di streaming perché aveva una sonorità diversa. L’IA aiuta proprio in questo: a creare contaminazioni che da solo forse non immagineresti.

Oggi invece la musica tende a ripetersi molto.

Sì, è tutta una fotocopia. L’intelligenza artificiale, se usata bene, può aiutare a uscire da questi schemi. Nella dance, certo, servono certi suoni perché la cassa funzioni nel mix, ma puoi comunque creare combinazioni nuove e sorprendenti.

È anche un modo per sperimentare e mantenere però un elemento umano nel processo.

Esatto. È fondamentale che resti l’intervento umano. E a chi è contrario dico: peggio per loro. Quando vai a un concerto, anche se l’artista è mediocre, ti emoziona il fatto che è vero, che può sbagliare. L’imperfezione è parte della bellezza.

Quindi credi che l’IA non sostituirà mai davvero i musicisti?

No, anzi. Costringerà i musicisti a diventare ancora più bravi. Io sto rifacendo dei brani con mio fratello e mi ha detto: “Mi serve un pianista con le palle per suonare queste cose”. Perché l’intelligenza artificiale a volte crea passaggi difficilissimi, non disumani ma complessi. Quindi, se vuoi rifarli dal vivo, devi essere tecnicamente molto preparato.

Nel progetto “Dead Poets Club” c’è anche una forte componente didattica e di ricerca. Come stanno reagendo i giovani musicisti a questa idea di lavorare con l’intelligenza artificiale?

Guarda, devo dire che sono molto interessati. Pensa che molti di loro studiano musica in ambienti dove spesso gli insegnanti, non essendo giovanissimi, tendono a dire: “Lasciate perdere l’intelligenza artificiale”. Io invece dico il contrario: studiate la musica, studiate la storia della musica, ma non ignorate l’IA. È uno strumento che può ampliare la vostra creatività, non sostituirla.

Nel progetto abbiamo coinvolto anche Renato Caruso, che è un musicologo e informatico, un vero genio secondo me. Io e lui ci siamo trovati subito: io non ho mai studiato musica in senso accademico, ma l’ho sempre fatta. La mia forza è sempre stata quella di circondarmi di musicisti e arrangiatori bravi, dire loro cosa volevo ottenere e costruire insieme.

E i giovani come reagiscono quando li coinvolgi concretamente?

Molto bene. Io sto facendo anche delle masterclass, per esempio a novembre parteciperò a un evento organizzato da Riccardo Sada e terrò una lezione presso la scuola di musica del mio amico Mauro Amatiello. Lì prenderò delle canzoni realizzate dagli studenti e le rielaborerò in diretta con l’intelligenza artificiale. Mostrerò loro i prompt che ho usato, le scelte fatte e i risultati ottenuti. Quando han fatto vedere a un ragazzo il risultato del mio lavoro su di una sua canzone è rimasto senza parole. Ecco, questo è lo spirito: far capire che l’IA può essere un collaboratore creativo.

di Federico Arduini

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