Dieci anni di “Anelante”: l’arte senza compromessi di Antonio Rezza e Flavia Mastrella
“Anelante” di Antonio Rezza e Flavia Mastrella sarà in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano domani sera nel contesto della Milanesiana

Dieci anni di “Anelante”: l’arte senza compromessi di Antonio Rezza e Flavia Mastrella
“Anelante” di Antonio Rezza e Flavia Mastrella sarà in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano domani sera nel contesto della Milanesiana
Dieci anni di “Anelante”: l’arte senza compromessi di Antonio Rezza e Flavia Mastrella
“Anelante” di Antonio Rezza e Flavia Mastrella sarà in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano domani sera nel contesto della Milanesiana
Nel panorama teatrale italiano, pochi nomi riescono a imporsi con la forza, la coerenza e la radicalità di Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Il loro sodalizio artistico – che dura dagli anni ’80 – ha costruito negli anni un repertorio inconfondibile. Quest’anno festeggiano i dieci anni di Analenate, uno dei loro spettacoli più iconici, in scena alla Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, domani sera, 30 giugno, al Piccolo Teatro Strehler di Milano . Li abbiamo incontrati per parlare di teatro, giovani, politica culturale e futuro.
Antonio Rezza: “Il repertorio è da difendere”
Antonio, Analente compie dieci anni. Non sono pochi per uno spettacolo. Che effetto ti fa?
“Nessuno dei nostri spettacoli viene mai abbandonato. Essendo noi i produttori di noi stessi, gli spettacoli non spariscono. Esistono spartiti musicali sempre uguali, ma ciò che cambia è chi li guarda, e chi li fa. È chiaro che chi li fa li suona sempre in modo diverso, ma anche chi li guarda cambia.
Quando le persone ci dicono: ‘È cambiato tantissimo da anni fa’, io penso che forse è cambiato chi lo vede. La musica suona in modo diverso nelle orecchie. E questo è importante, perché significa che il repertorio vive. Ma nel teatro finanziato, il repertorio viene buttato. Gli spettacoli vengono fatti solo per attingere a un finanziamento, poi vengono abbandonati.
Noi crediamo che il repertorio sia fondamentale. Non siamo d’accordo con quelli di adesso, né con quelli di prima. Non siamo d’accordo con nessuno. Ma pensiamo che il repertorio di un artista, se è autore, debba essere salvaguardato. Perché facciamo ancora Shakespeare? Perché si è salvaguardato da solo. Perché facciamo Beckett? Perché è riuscito a tramandare quello che faceva. Non si può buttare lo sforzo di una vita solo perché è già stato rappresentato.”
E nel frattempo il pubblico cambia, anche quello.
“Molti quarantenni che venivano a vederci non ci sono più. Però ci portano i nipoti. E non è un dettaglio. I giovani portano i nonni, i nonni portano i nipoti, i genitori portano i figli e i padri. È un’esperienza trasversale. Portare in giro tutti questi spettacoli è faticoso, certo. Richiede manutenzione continua, soprattutto per le strutture. Costringo Flavia ad avere sempre un occhio attento, perché la materia è immortale, ma va sempre messa a punto.

Mi incuriosisce quello che dicevi: i giovani vengono ai vostri spettacoli. Smentiamo quindi il mito che il teatro non parli ai giovani?
“Il teatro probabilmente non è per i giovani. O meglio: un certo tipo di teatro non lo è. Alcuni linguaggi teatrali sono repulsivi per i giovani. Il teatro, per essere, è un linguaggio, e come tale deve evolversi. Ma oggi andiamo verso un analfabetismo dilagante. I social sono strumenti di volgarizzazione contemporanea, spingono alla cancellazione della grammatica. La gente scrive come nei messaggi. ‘Che’ scritto con la K, per accorciare.
Questo non vuol dire che bisogna cambiare apposta per andare incontro ai giovani. Noi facciamo percussioni, ritmo. Il ritmo è universale. I giovani vengono perché vedono una cosa strana, che non esiste altrove. Non è che ci poniamo il problema di essere ‘per i giovani’.
Ma se non educhiamo i giovani a certe forme d’arte, è difficile che ci arrivino da soli…
“Sì, ma come puoi educare se, per esempio, artisti di punta come noi, come Alessandro Bergonzoni, come Franco Maresco – e tanti altri anche all’estero – vengono tenuti fuori da una presenza forte in televisione, per dire quello che pensano? Come si fa a portare i giovani a teatro, se chi ha valore artistico oggettivo deve sempre mantenersi a un livello altissimo, mentre si preferisce ospitare il cantante mentecatto neomelodico?
Questi cantanti di oggi li odio: stanno tutti male quando cantano. Hanno tutti i problemi e non ne muore nessuno e questa è una grande ingiustizia. Mi auguro una carneficina del genere. Come dico in un aforisma di “Hybris“: l’unica cosa che mi addolora è che non riuscirò a vederli morire tutti.”
Il teatro, però, è sempre stato anche una forma di racconto del presente. Come può oggi tornare ad avere un ruolo centrale?
“Io non posso essere d’accordo con una visione di destra che pensa che la cultura sia il nemico dell’espressione. Ma non posso essere d’accordo nemmeno con quella che viene chiamata sinistra – che poi è destra pure lei – che elemosina finanziamenti. La sinistra non esiste più, né a livello politico né ideologico.
Io farei un tentativo: dieci anni di arte non finanziata. Ricordiamoci che le pitture rupestri non erano finanziate dal ministero. Lo Stato prepotente, lo Stato gerarca, non vuole più dare soldi alla cultura? Va bene, reagiamo con sdegno, non col piagnisteo. Reagiamo con le opere. E vediamo cosa succede.”
Facciamo un passo indietro: come nasce il tuo sodalizio con Flavia Mastrella?
“Tutto è nato con una mostra fotografica, I Visi…goti. Era una collaborazione tra me, Angelo Frattini (il fotografo), Massimo Camilli (nostro collaboratore storico), e Flavia. Lei ricamava intorno alle mie espressioni gli spazi dove si esprimevano queste deformazioni facciali. Quindi è iniziato tutto con la deformazione dello spazio.
Il nostro rapporto è andato avanti sempre così. Si parla dell’86, ’87. E siamo andati avanti perché tra i due non c’è uno che dice all’altro cosa deve fare. Questo è il trucco. Non c’è gerarchia. Siamo contro ogni forma di comando e intimidazione.”
Non è poco. Per durare così tanto ci vuole rispetto, oltre che affinità.
“Non è facile, ma nemmeno impossibile. Poi, certo, abbiamo tanti collaboratori. Non siamo solo io e Flavia. Facciamo quello che dobbiamo fare, ma è un lavoro di squadra.”
Che spesso non viene valorizzato.
“Siamo in una società individualista. Il lavoro di squadra è malvisto.”
Prima di salutarci: com’è stato ricevere il Leone d’Oro alla carriera?
“Per gente come noi, che non ha mai preso un soldo dallo Stato, è stato un complimento esagerato. L’istituzione è scesa a patti con noi volontariamente. Non abbiamo mai chiesto nulla. Questo dimostra che con la bellezza di quello che fai, puoi arrivare – non dico dove vuoi, ma dove non potresti. Se fossimo stati più accomodanti, oggi avremmo più disponibilità economiche. E invece finanziamo tutto con quello che guadagniamo.
Trovo ingiusto che siamo stati costretti ad abbandonare il cinema prodotto. I nostri film non erano ritenuti ‘adatti al pubblico’. Ma questa è un’offesa a chi li vede, non a chi li fa. Il Leone d’Oro è stato un grande godimento. Soprattutto pensando a chi non lo riceverà mai.
Vorrei ringraziare Elisabetta Sgarbi e la Milanesiana che ci invita sempre. E anche Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Enzo Di Norcia, Miriam Africano – che sono gli attori dello spettacolo – e Massimo Camilli, nostro collaboratore storico. Perché lo spettacolo si fa in tanti.”
Ci sarete di nuovo a Milano?
“Sì, torneremo al Piccolo dal 21 al 26 ottobre con Metà di Metà Dietro Metà Dietro, il nostro nuovo spettacolo, che ha debuttato a Napoli la settimana scorsa. È uno spettacolo a dir poco clamoroso.”
Flavia Mastrella: “Il teatro deve raccontare l’oggi, usando anche le immagini”
Dieci anni sono un traguardo importante per uno spettacolo. Come vivi questo anniversario?
Veramente, per me il tempo funziona un po’ come sul web: il futuro è anche presente. Non ho un vero senso del tempo.
Quindi ogni replica è un po’ come se fosse la prima? O anche la prossima?
Sì, esatto. Vivo questa dimensione in cui futuro e presente si mescolano. Anche il passato funziona nel presente. È un tempo “social”, in un certo senso.
In effetti, anche sui social può capitare di leggere un post di sei anni prima e sembrarci attuale.
Esatto, lo leggi lì, in quel momento, e ti sembra nuovo. È presente.

Parliamo dello spettacolo. Come vivi ogni nuova messa in scena? Come lavori per ricostruire ogni volta l’habitat visivo in cui si muove Anelante?
Per me il teatro è un corpo. Mi piace moltissimo lavorare con i tecnici, perché penso che un’opera sia completa solo quando coinvolge sia lo spazio sia le persone che lo abitano. È una cerimonia, un rito, ogni volta.
E immagino che anche il pubblico sia cambiato nel corso degli anni. Eppure Anelante continua a parlare anche ai più giovani.
Sì, succede proprio questo. Il nostro è un linguaggio fatto di sintesi, nella drammaturgia, e di una forte componente visiva, molto studiata e attuale. I ragazzi di oggi – anche di 13 o 17 anni – lo capiscono molto bene. Hanno una sensibilità visiva affinata. Avvertono questa doppia comunicazione, parola e immagine. I quarantenni, invece, spesso faticano di più a coglierla.
Questo sfata un po’ il luogo comune che i giovani non amino il teatro. Forse è anche una questione di abitudine. Secondo te, cosa si potrebbe fare per avvicinarli davvero?
Intanto, io abolirei gli spettacoli “per bambini”. Meglio portarli a teatro a vedere cose che parlano un linguaggio contemporaneo, fatto di parola e immagine. C’è un impoverimento del linguaggio, oggi. E il teatro dovrebbe raccontare il momento storico che viviamo, usando anche le immagini, perché fanno parte del nostro linguaggio attuale.
Secondo te perché in Italia questo approccio è ancora poco diffuso? Una forma di tradizionalismo culturale?
No, il problema è più profondo. In Italia siamo molto indietro culturalmente. Non ho mai capito se per imposizione o per incapacità. Per esempio, ora mi sto occupando anche di realtà immersiva, ma qui ti prendono ancora come se fossi un bambino. Se invece la stessa cosa arriva dalla Germania o dagli Stati Uniti, allora va bene. C’è un complesso culturale in Italia molto forte. Forse te ne sei accorto.
Eccome. È un meccanismo che si applica a tutti gli ambiti culturali, dalla musica al teatro, al cinema.
Sì, guarda quelli che lavorano con la musica elettronica: sono bravissimi, ma non possono andare avanti. Non è neppure una questione di tradizione: è ignoranza. I gestori della cultura italiana sono leggermente ignoranti, diciamo così.
Rispetto a un tempo è peggiorata la situazione? O c’è sempre stata questa difficoltà?
Una volta c’era più libertà. L’arte è legata alla politica. E quando la libertà si riduce, si restringe anche lo spettro della ricerca. Sia quella scientifica sia quella artistica. Oggi la ricerca è molto trattenuta.
Anche il cinema sembra risentirne.
Sì, è tutto molto politicizzato. E i film che si producono spesso parlano tutti della stessa cosa: mafia, criminalità. È come se ci fosse una volgarizzazione della cultura. Ma non siamo solo quello.
Eppure spesso si dà la colpa al pubblico: “Non lo capirebbero”, “non lo guarderebbero”. Ma se certe opere non si producono, come si fa a saperlo?
Infatti. E tanti giovani che hanno talento vengono inibiti. Gli dicono: “Ormai è stato fatto tutto”. È successo anche a noi. Ma per fortuna, a Roma avevamo un luogo dove potevamo esprimerci liberamente. Un gallerista che ci lasciava fare qualsiasi cosa ci venisse in mente. Ed è lì che abbiamo sviluppato il nostro pensiero.
Perché vi è stata data la possibilità di sperimentare.
Sì, e l’incontro con la gente ti fa crescere. E se cresci, entri nella comunicazione contemporanea. È fondamentale.
Tornando a Anelante, mi chiedevo se, nel tempo, è cambiato qualcosa nel tuo modo di costruire lo spazio scenico. C’è stato un cambiamento?
In realtà no. L’habitat è rimasto lo stesso. È ispirato proprio allo spazio del web. Già da Fratto_X avevo iniziato a studiare lo spazio come qualcosa di infinito. È un lavoro pensato come una schermata. Cambia magari il disegno luci – ora lo cura Alice Mollica – ma l’impianto è lo stesso. È un messaggio che si immobilizza e cresce nella visione dello spettatore.
Parliamo invece del tuo rapporto con Antonio. Lavorate insieme da tantissimo tempo. Non è scontato che un sodalizio artistico duri così a lungo. Qual è il vostro segreto?
Mah, io sono distratta. Non me ne sono nemmeno accorta che stava passando il tempo. Forse ho solo una concezione del tempo un po’ bizzarra. (ride)
Nel 2018 avete ricevuto il Leone d’Oro alla carriera. Come l’hai vissuto?
All’inizio pensavo fosse una di quelle cose che si danno ai morti. Poi, invece, si è rivelato utile. Siamo molto curiosi di andare in Paesi molto diversi dal nostro, e il Leone ci ha aiutato. Siamo riusciti ad andare in Cina. I cinesi impazzivano per il Leone d’Oro. Per me è stato il massimo, perché amo la cultura cinese, e avevo già usato riferimenti estetici orientali. È stato bello scoprire che serviva a qualcosa.
Domani porterete di nuovo Anelante alla Milanesiana. Che sentimento provate verso questo appuntamento ormai ricorrente?
Con i migliori sentimenti, sempre. Alla Milanesiana torniamo volentieri: è un rapporto che va avanti da tempo, grazie a Elisabetta Sgarbi. Veniamo per l’incontro con il pubblico di Milano.
di Federico Arduini
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- Tag: spettacoli, Teatro
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