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Disney, dalla magia al trucco
Il falso progressismo per camuffare la mediocrità dei contenuti: così i remake in live action si perpetuano in una triste miniera d’oro.
Disney, dalla magia al trucco
Il falso progressismo per camuffare la mediocrità dei contenuti: così i remake in live action si perpetuano in una triste miniera d’oro.
Disney, dalla magia al trucco
Il falso progressismo per camuffare la mediocrità dei contenuti: così i remake in live action si perpetuano in una triste miniera d’oro.
Il falso progressismo per camuffare la mediocrità dei contenuti: così i remake in live action si perpetuano in una triste miniera d’oro.
È il cerchio della vita grama. Ultimo esempio: gli addetti ai lavori si sono pure scandalizzati, all’obiezione che una Sirenetta afroamericana sarebbe stata poco credibile. «Se non supportate la nostra Halle Bailey, una Ariel perfetta – dice Rachel Zegler, che invece interpreterà Biancaneve nell’ennesimo remake in live action della Disney – non supportate nessuna di noi». E così ogni critica viene tacciata di razzismo, ogni perplessità di bigotteria. Il colosso dell’animazione fa la figura del campione di inclusività e di incassi al botteghino. E mentre strizza fino all’osso la magia dei tempi che furono, sfornando scialbi rifacimenti dei grandi classici, ecco il trucco da prestigiatore: tutti continuano ad aspettare le novità, quasi senza accorgersi che si tratta di luccicanti B-movie. L’importante è che se ne parli. Il trailer della prossima “Sirenetta”, al cinema nel 2023, in meno di un mese ha sfondato le classifiche di YouTube per numero di dislike complessivi: oltre 3 milioni (il 70% delle interazioni totali) contro la scelta di Bailey. Tralasciando gli isolati sostenitori di una grottesca eugenetica – chi vive in fondo al mar non può abbondare di melanina! – è tutta questione di buonsenso. Immaginare una Ariel nordica (come nel lungometraggio del 1989) non vuol dire ingabbiare l’infinitezza della fantasia, ma rispettarla nei suoi luoghi e tempi ben precisi: Danimarca, secolo XIX, nel caso della fiaba di Hans Christian Andersen. Chissà cosa penserebbe invece Carlo Collodi, vedendo la sua fata turchina calva e nera nell’interpretazione di Cynthia Erivo: il live action di “Pinocchio”, fresco di uscita, è già stato stroncato dalla critica. Ma gli incassi giustificheranno il resto. È così dal 2010, quando l’“Alice in Wonderland” di Tim Burton ha spalancato le porte ai remake Disney in carne ed ossa. Da “Aladdin” a “Il re leone”: in media, 519 milioni di dollari di profitto per film. Rampe inespressive di politicamente corretto, lontane dal cartone o dalla fiaba originale, mentre i capolavori targati Walt subiscono l’onta del banner di avvertimento: «Questo programma può contenere rappresentazioni culturali obsolete». Povero Peter Pan. La banale realtà è che ormai la mission aziendale non è creare arte ma utili da capogiro. Eppure, la controllata Pixar riesce ancora nell’impresa di affrontare le tematiche del fragile o del diverso – si pensi a “Luca”, 2021 – con genuina freschezza. E attraverso storie nuove. Disney invece insiste, scherzando col fuoco: il live action di “Biancaneve”, ora in fase di produzione, ha indignato le persone affette da nanismo. «Adotteremo soluzioni tecniche contro gli stereotipi», assicurano da Burbank. Il cringe continua. Basterebbe smettere di guardarlo.
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