Ci sono storie che meritano di essere raccontate, ci sono delle volte in cui le serie tv svelano vicende che altrimenti molti non avrebbero mai conosciuto. È il caso di “For Life”, due stagioni già andate in onda sulla Abc negli Stati Uniti, la prima di queste è da fine gennaio visibile anche in Italia su Netflix.
La storia, romanzata nella serie, è quella di Aaron Wallace, il gestore di un locale notturno che finisce in prigione accusato di essere a capo di un traffico di droga. Nel chiuso delle mura del carcere dedicherà le sue giornate a cercare di dimostrare la propria innocenza, ma non solo. Diventerà avvocato e difenderà altri detenuti, come lui condannati ingiustamente. Dall’altra parte della ‘barricata’ abbiamo un procuratore non proprio limpido e un sistema che utilizza pesi diversi a seconda del colore della pelle.
Questa serie tv narra anche le dinamiche interne alle carceri, le lotte di potere, la prepotenza, le ‘gerarchie’ fra detenuti. Basterebbe questo a consigliarne la visione, ma c’è di più. Perché Aaron Wallace esiste, anche se in realtà si chiama Isaac Wright Jr. e nel 1991 è stato condannato all’ergastolo per dieci capi di imputazione legati al traffico di cocaina. Reati, quelli legati alla droga, nei confronti dei quali l’ordinamento americano prevede pene particolarmente severe. Proprio come Wallace nella serie, dietro le sbarre Wright Jr. studia per diventare avvocato e ribalta venti sentenze di condanna di altri detenuti. Nel 1997 viene annullata anche la sua e il procuratore che aveva portato avanti l’accusa è condannato per corruzione.
Una storia terribile e bellissima, in cui troviamo tutti gli ingredienti propri di un legal drama ma anche la questione sempre delicata legata ai pregiudizi razziali, duri a morire nonostante i tempi attuali non siano decisamente più quelli delle condanne arbitrarie sulla base del colore della pelle. Probabilmente nessun italiano avrebbe conosciuto questa storia se non fosse stato per la messa in onda di “For Life”.
La serie tv ovviamente sottolinea in modo particolare gli aspetti che più possono colpire lo spettatore ed estremizza i protagonisti della vicenda. D’altronde non si tratta di un documentario. Forse proprio questo ha decretato il suo successo anche fra chi non è particolarmente appassionato di vicende giudiziarie. Raccontare Aaron Wallace – o meglio Isaac Wright Jr. – utilizzando la formula della serie si è rivelata una scelta perfetta. Inutile negarlo, è questa oggi la modalità per arrivare rapidamente e in modo più efficace a una larga fetta di pubblico.
Molto più che con un film. Senza volerne fare necessariamente un elogio, perché ciascuno potrà trovarvi anche dettagli che stonano, personaggi tratteggiati magari in modo volutamente estremo nonché eccessi. È però già un successo che storie come queste vengano raccontate.
Di Annalisa Grandi
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