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Gianni Togni: “In tv non vado, mi chiedono sempre di cantare le stesse canzoni. Non sono uno che vive nel passato”

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Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Gianni Togni in occasione dell’uscita del remix di “…e in quel momento…”

Gianni Togni

Gianni Togni: “In tv non vado, mi chiedono sempre di cantare le stesse canzoni. Non sono uno che vive nel passato”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Gianni Togni in occasione dell’uscita del remix di “…e in quel momento…”

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Gianni Togni: “In tv non vado, mi chiedono sempre di cantare le stesse canzoni. Non sono uno che vive nel passato”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Gianni Togni in occasione dell’uscita del remix di “…e in quel momento…”

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1980, nel mondo nasce l’era del personal computer e negli Stati Uniti parte la CNN, il primo canale “All News”. In Italia, invece, è un anno segnato da eventi drammatici: la tragedia di Ustica, la strage di Bologna, la morte di John Lennon a New York. Ma tra le pieghe di quella stagione complessa, la musica riesce ancora a far sognare. È la primavera di quell’anno quando nelle radio italiane comincia a risuonare una canzone dal titolo evocativo e un po’ misterioso: “Luna”.
Un brano che racconta di un vagabondo che “guarda il mondo da un oblò” e che, nel giro di poche settimane, diventa l’hit dell’estate, per poi trasformarsi in un classico intramontabile della canzone italiana. A firmarla è un giovanissimo Gianni Togni, che con quell’album dal titolo lunghissimo – “…e in quel momento, entrando in un teatro vuoto, un pomeriggio vestito di bianco, mi tolgo la giacca, accendo le luci e sul palco m’invento” – entra di diritto nella storia della musica d’autore.

Oggi, a 45 anni dalla sua uscita, quel disco torna in una nuova edizione celebrativa pubblicata da Warner Music, completamente restaurata e remixata dai nastri originali. Si intitola “…e in quel momento…” Remix 2025 e contiene otto brani – tra cui “Luna”“Maggie”“Chissà se mi ritroverai” e “È bello capirci (senza essere uguali)” – che ritrovano nuova vita, senza tradire la loro essenza.

Ne abbiamo parlato con Gianni Togni, che ci ha raccontato la nascita di questo progetto, il lavoro certosino di recupero dei nastri e le emozioni di riascoltare, dopo quasi mezzo secolo, le tracce che segnarono l’inizio della sua straordinaria carriera.

Questa riedizione arriva a 45 anni da quei giorni. Com’è nata l’idea?

Mi hanno proposto di fare un remix, cioè di riprendere i nastri originali e rimissarli da capo. Io ho accettato, anche perché conservo ancora tutte le 24 tracce originali. Pensavo che in cinque o sei giorni ce la saremmo cavata, ma non è stato affatto così.

Ho deciso di seguire questa produzione anche per imparare, perché non avevo mai fatto un remix di questo tipo. Lavoro sempre in analogico – anche nei dischi più recenti registro così – ma questa era un’esperienza nuova. Per prima cosa i nastri sono stati puliti a mano, poi messi in un forno speciale a 45 gradi per il processo di “cottura” che li stabilizza. Una volta pronti, li abbiamo rimessi sul registratore a 2 pollici, aperto il mixer e portato tutte le 24 tracce in digitale. Lì è cominciata la vera avventura in studio.

Durante il lavoro abbiamo scoperto che il rullante della batteria risultava distorto in quasi tutti i brani. Abbiamo quindi trovato un colpo pulito, campionandolo e sostituendolo su tutto il disco.
Molti strumenti, come pianoforte e chitarre, erano in controfase – quindi con un suono chiuso, nasale – e siamo riusciti a correggerli con un’apposita applicazione. Alcune chitarre, inoltre, erano state riregistrate all’epoca per mancanza di tracce, e anche lì abbiamo dovuto ricostruire e sistemare tutto.

Per fortuna la voce era rimasta pulita, perché l’avevo registrata in una cabina isolata negli studi CDB di Milano. Un’altra difficoltà è stata capire quali strumenti realmente fossero presenti nei mix originali: negli anni ’80 si registrava molto di più, poi però si chiudevano molte parti nel mix finale, non essendoci la possibilità di spostarle come si fa oggi col digitale. Così abbiamo dovuto confrontare costantemente il vecchio master stereo per capire cosa mantenere e cosa togliere.

Insomma, è stato un lavoro lungo e complesso, affrontato forse con un po’ di leggerezza iniziale, ma che ci ha fatto scoprire tante sfumature e difficoltà che non immaginavamo.

Com’è stato riascoltare quello che era stato fatto in quei giorni? C’è qualcosa che ti ha colpito e che non ti ricordavi minimamente?

Sì, non mi ricordavo, per esempio, certa strumentazione. Quando poi vai a fare un confronto tra il vecchio e il nuovo, ti rendi conto di dettagli che all’epoca non avresti mai notato.
Abbiamo fatto degli ascolti con diversi giornalisti, da Roma e da Milano, e sono rimasti tutti meravigliati: non abbiamo cambiato nulla, né aggiunto nulla, anche perché sarebbe impossibile.

All’epoca non si suonava con il click, quindi tutto era più “umano”. In “Maggie” la velocità d’esecuzione aumenta man mano: parte a un tempo e arriva con dieci, dodici battiti in più al minuto. Non me ne ero mai accorto prima, ma quando metti il brano sotto una lente di ingrandimento, queste cose saltano fuori.

Una cosa invece me la sono ricordata bene: la voce. A parte un piccolo passaggio che ho ricantato, è tutta la stessa del 1980. Quel disco lo cantai tutto in un solo giorno, dalle 10 del mattino alle 8 di sera.
Non avevamo tempo: io allora ero praticamente uno sconosciuto, contavo poco, e il tempo in studio era prezioso. L’orchestra doveva ancora registrare, ma il tempo era tiranno e cantai tutto in un’unica sessione.

Mi ricordo ancora quella mattina: mi svegliai prestissimo, all’alba, per la tensione. Dovevo cantare tutto, e senza alcuna scorciatoia: non c’era l’autotune, non c’erano correzioni. Se sbagliavi, dovevi rifare tutto, e rientrare in studio non era affatto semplice.

Dentro quel disco c’è il mondo dell’epoca che tu osservavi. Cosa trovi oggi di più diverso rispetto a quel tempo?

Un po’ questo lo racconto anche nel mio ultimo album, “Edizione Straordinaria“. Se ascolti “Lungo il Tevere“, uscito nel 2024, capisci bene cosa intendo: è un disco nato tutto da articoli di giornale che raccoglievo durante il periodo del COVID, scegliendo quelli che mi colpivano di più. Poi, insieme a Bonomo, ci abbiamo costruito sopra i testi.

La differenza rispetto a un tempo è enorme. Una volta c’era una comunità, nonostante i problemi, le difficoltà giovanili e le forti contrapposizioni politiche – che certo non erano facili – ma erano comunque idee, visioni, discussioni. Oggi non si discute più. Un tempo ci si incontrava al bar, si camminava per strada e si parlava di tutto: di letteratura, di società, di musica. Si prendeva un disco, si andava a casa di un amico con un giradischi e lo si ascoltava insieme, commentandolo. Era un modo per condividere.

Oggi, con Internet e i social, sembrava che si potesse aprire il mondo ancora di più, ma è accaduto l’opposto: è diventato tutto più egoistico. Ognuno pensa solo a se stesso, dice “esisto solo io”, fa ciò che gli conviene senza curarsi degli altri. E questo, purtroppo, si riflette nella società di oggi.

Le nostre battaglie di un tempo avevano uno scopo: arrivare all’università, cercare giustizia, ampliare la libertà e l’apertura democratica. Oggi invece si tende a chiudersi sempre di più.
Forse anche perché, come penso io, c’è un problema di fondo: ci sono pochi, pochissimi miliardari che pagano pochissime tasse e che possono permettersi di comprare praticamente tutto. Questo ha creato poteri nuovi, squilibri, e ha cambiato le aspettative delle persone: se non diventi ricco, non sei nessuno.

E così la società è cambiata in modo profondo e non in meglio.

La svolta nella tua carriera è arrivata dopo anni di aperture, di concerti, di tanta esperienza…
Anche questa è una grande differenza rispetto ai tempi di una volta, no?

Una volta era tutto diverso. Io ho cominciato da ragazzino: frequentavo il primo liceo quando ho conosciuto Guido Morra, sui banchi di scuola. Da lì abbiamo iniziato a scrivere le prime canzoni insieme.
Poi, piano piano, ho cominciato a esibirmi: feci un provino al Folk Studio e, siccome ero minorenne, potevo suonare solo la domenica pomeriggio al “Folk Studio Giovani“. C’era sempre un pubblico attento, si saliva sul palco con la chitarra, un solo microfono per la voce – a volte neanche quello – oppure un pianoforte in un angolo, e si cantava così, semplicemente.

Quello era il modo di crescere: piccoli spazi, locali pieni di persone curiose, che ascoltavano davvero. Nel tempo ce n’erano tanti, a Roma e in tutta Italia. Oggi invece quasi tutti quei luoghi sono chiusi.
E i ragazzi non hanno più dove suonare, dove farsi le ossa. Li mandano direttamente ai talent: AmiciX FactorSanremo Giovani, a tentare la fortuna.

Appena qualcuno fa una canzone che funziona, subito si parla di “concerti negli stadi”. Ma non ha senso!
Io gli stadi li ho fatti, sì, ma nel 1982, dopo “Luna“. Poi con “Innamorata” e più avanti con “Giulia“. Ma ci sono arrivato dopo anni, dopo quattro album, con un percorso vero, graduale. Oggi sembra che si voglia saltare tutto: la gavetta, il pubblico dei locali, l’esperienza. E invece è proprio lì che si forma un artista.

Come ti senti quando ragioni sul fatto che alcune delle tue canzoni sono nella colonna sonora di tanti italiani?

Io sono davvero felice, perché onestamente chi se lo sarebbe aspettato? Se guardi la mia discografia, ti accorgi che non mi sono mai ripetuto: “Semplice” è completamente diversa da “Giulia“, “Vivi” è diversa da “Innamorati” e così via. Ogni disco ha un suo mondo, una sua identità. Ho sempre cercato di non copiarmi, perché il “copia e incolla” non mi appartiene: io sono uno che guarda avanti.

Questa è la prima volta che ho rimesso mano a un mix di 45 anni fa, ma l’ho fatto per imparare, per curiosità. In Inghilterra o in America lo fanno spesso: rimettono mano ai nastri originali, pubblicano cofanetti, remixano album storici. Da noi c’è ancora un po’ di diffidenza verso queste operazioni. Eppure, se sentirai il risultato, ti accorgerai che, pur non avendo cambiato nulla né aggiunto nulla, il disco suona come se fosse stato registrato ieri. È stato un grande insegnamento per me.

Detto questo, io non sono uno che vive nel passato, non ho quella vocazione. Per questo vado poco in televisione: mi chiedono sempre di cantare le stesse canzoni e io ci vado solo se posso proporre anche qualcosa di nuovo. Ma pare che appena uno canta un brano nuovo, la gente cambi canale. Forse è vero, forse no, lo diranno i posteri.

Sono passato anche ai musical. Durante un periodo a Londra andavo spesso a teatro, soprattutto a vedere i musical sinfonici e me ne innamorai. Dissi: “Voglio farlo anch’io.” È un’arte che raccoglie tante altre arti insieme.

Ho fatto, per esempio, “Sogno e son desto” con Massimo Ranieri, per la regia di Giuseppe Patroni Griffi e fu un successo clamoroso.

È un po’ una tendenza italiana quella che mi descrivevi prima, cioè quella di pensare un artista solo in base ai grandi successi, senza considerare tutto il resto.

Io penso di sì. Però, per dire, una volta c’erano programmi come “Discoring”, che davano spazio ai giovani e agli artisti emergenti, oltre che a quelli stranieri. Era una trasmissione molto seguita, andava in onda all’interno di “Domenica In“, ed è proprio lì che io andai per la prima volta in televisione a cantare “Luna“, grazie a “Discoring“.

Oggi tutto questo non esiste più. Adesso chiamano certi artisti perché hanno due milioni di follower.
E io, dentro di me, mi chiedo: “Ma è possibile?” Perché io seguo Peter Gabriel – uno dei più grandi di sempre – e ha circa 260.000 follower. Poi magari segui un altro grande artista internazionale e ne ha 350.000. E invece c’è un artista italiano con tre milioni di follower.
Mi sembra un po’ strano…

Dall’ascolto del disco risalta un’attenzione meticolosa al suono, al lato musicale, non solo al lato testuale e tematico

Il canto, per me, non è semplicemente “dire le parole”: è un suono. E quel suono deve sposarsi con le parole. A volte una parola ha un grande significato, ma se suona male va cambiata con un’altra che magari ha meno significato, ma suona meglio. È tutta questione di equilibrio tra testo e musica.

Oggi purtroppo molta gente non presta attenzione a come un disco è inciso o stampato. Molti vinili costano 30-35 €, e se sono stampati male, il suono ne risente: è giusto avvisare chi li compra, per evitare delusioni. Io ho fatto lo stesso per “Edizione Straordinaria“: prima di far stampare il disco, ho controllato le prove di stampa più volte, quattro persone diverse, prima di dire “ok, può diventare un LP”. È questione di rispetto per chi ascolta.

Bisogna anche riabituare le persone a un ascolto consapevole. Esiste una nicchia di pubblico molto attenta, che compra i dischi e li ascolta davvero: non è così piccola come sembra, perché ogni anno continua a crescere.

Ad esempio, per il mio doppio disco dal vivo e per “Edizione Straordinaria”, il distributore mi ha detto: “Perché non facciamo anche la cassetta?” Ho detto: “Ok, facciamola.” E la doppia cassetta è stata tra le cose più vendute subito e non esistono più copie.

È evidente che c’è una fetta di pubblico molto attenta. I master, ad esempio, sono tre per il vinile, uno per la cassetta, uno per il digitale: ogni formato ha il suo approccio e va trattato con cura, perché cambia tutto, dalla resa sonora alla qualità dell’ascolto.

di Federico Arduini

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