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Esce “Iddu – L’ultimo padrino” di Grassadonia e Piazza

Al cinema “Iddu – L’ultimo padrino”, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, pellicola ispirata al periodo di latitanza del boss Matteo Messina Denaro

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Esce “Iddu – L’ultimo padrino” di Grassadonia e Piazza

Al cinema “Iddu – L’ultimo padrino”, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, pellicola ispirata al periodo di latitanza del boss Matteo Messina Denaro

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Esce “Iddu – L’ultimo padrino” di Grassadonia e Piazza

Al cinema “Iddu – L’ultimo padrino”, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, pellicola ispirata al periodo di latitanza del boss Matteo Messina Denaro

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Al cinema “Iddu – L’ultimo padrino”, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, pellicola ispirata al periodo di latitanza del boss Matteo Messina Denaro

Una storia di pizzini fra grottesche maschere tragicomiche. Esce al cinema “Iddu – L’ultimo padrino”, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. La pellicola si ispira liberamente al periodo di latitanza del boss Matteo Messina Denaro, in particolare durante il suo scambio epistolare con l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, sul quale i registi si sono documentati a lungo. L’opera non vuole essere biografica ma un riadattamento incentrato sui rapporti fra potere, menzogna e verità.

Sicilia, primi anni Duemila. Dopo anni in prigione per mafia, il politico di lungo corso Catello (interpretato da Toni Servillo) ha perso tutto. Ma quando i servizi segreti italiani lo contattano per aiutarli a catturare Matteo (impersonato da Elio Germano) – suo figlioccio e ultimo grande latitante di mafia – vede l’occasione per riscattarsi. Scaltro e approfittatore, Catello tenta un rischioso scambio epistolare con Matteo, sfruttando il vuoto emotivo del latitante per indurlo a rivelare il proprio nascondiglio. Un vero azzardo con uno dei criminali più ricercati al mondo.

La regia di Grassadonia e Piazza si muove chiaramente nel solco del primo Paolo Sorrentino, con influenze del cinema di Franco Maresco e la sua ironica e carnevalesca visione della Sicilia. Pur partendo da queste intriganti premesse, il lungometraggio soffre di una serie di scelte stilistiche e tematiche. Quindi, se da un lato l’atmosfera e la rappresentazione grottesca del potere vengono narrate in modo fine, dall’altro si perde in un’estetica che ricorda i prodotti seriali tipici di Netflix. Dall’impostazione visiva, con un senso d’oscurità patinata, passando per l’illuminazione notturna immersa in luci densamente colorate, fino ai trucchi e agli abiti marcati e perfetti.

Come l’estetica, anche la trama fatica a trovare il suo equilibrio. Alcuni temi – fra cui oppressione, solitudine, rapporto padre-figlio – non sono indagati fino in fondo, così come quello di Matteo Messina Denaro con le donne, quando invece la biografia del boss avrebbe permesso di esplorare in modo originale questi aspetti. La storia principale ruota attorno a un maldestro tentativo di cattura e manca di una vera e propria direzione ideale. Elio Germano mette il suo talento a disposizione del personaggio ma il film non gli permette di renderlo tridimensionale e complesso. Toni Servillo recita magneticamente nel personaggio caricato e già iconico di Catello. Ma il tentativo di evidenziare il grottesco, così da rendere il tragico insopportabile, s’incastra in un intreccio che si blocca in questo traffico di maschere. E infine la storia si riduce a una guerra fra guardie e ladri che diventa più un pretesto per uno show, senza arrivare a una vera catarsi emotiva e narrativa. A emergere è il vecchio racconto gattopardiano che «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

Nonostante l’ambizione di raccontare un pezzo di storia italiana di corruzione e disgregazione morale, il lungometraggio non riesce pertanto a liberarsi del genere dramedy (la commedia drammatica) nella sua descrizione del potere. E pensare che è proprio il personaggio di Catello a dire la battuta chiave del film: «È il ridicolo a uccidere molto più che le pallottole».

di Edoardo Iacolucci

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