Skip to main content
Scarica e leggi gratis su app

Le bellezza del suono ne “Il Dominio della Luce”

|

“Il Dominio della Luce” è un viaggio immersivo in cui suono e parola dialogano. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con gli autori, Angelini e D’Erasmo

Il dominio della luce

Le bellezza del suono ne “Il Dominio della Luce”

“Il Dominio della Luce” è un viaggio immersivo in cui suono e parola dialogano. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con gli autori, Angelini e D’Erasmo

|

Le bellezza del suono ne “Il Dominio della Luce”

“Il Dominio della Luce” è un viaggio immersivo in cui suono e parola dialogano. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con gli autori, Angelini e D’Erasmo

|

Da oggi, 25 aprile, è disponibile in tutti i negozi di dischi, fisici e digitali, “Il Dominio della Luce”, il nuovo progetto musicale e letterario di Roberto Angelini e Rodrigo D’Erasmo. Un’opera corale che unisce musica strumentale, scrittura, arte visiva e pensiero, nata dall’incontro tra due artisti da sempre legati da una profonda amicizia e da una passione condivisa per la ricerca sonora.

A vent’anni dal loro tributo a Nick Drake (PongMoon, 2005), Angelini e D’Erasmo tornano con un lavoro che va oltre i confini del disco: “Il Dominio della Luce” è un viaggio immersivo in cui suono e parola dialogano, si rincorrono e si amplificano a vicenda. Il progetto si avvale della partecipazione di una fitta rete di collaboratori – musicisti, scrittori, filosofi, registi, attori – che hanno scelto di contribuire con testi originali e visioni personali, dando forma a un universo collettivo, bizzarro e affascinante.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i due autori per capire meglio come sia nata l’idea di questo progetto e come ci hanno lavorato

Come nasce l’idea di dar vita a “Il Dominio della Luce”?

L’idea ha preso forma dalla parte musicale, che è nata un paio d’anni fa. Nasce dal desiderio, finalmente, di trovare una nostra voce. Parlo di me e di Roberto: suoniamo insieme da tantissimi anni, abbiamo portato avanti diversi progetti, tra cui uno, in particolare, legato alla musica di Drake, su cui abbiamo lavorato moltissimo, facendo un’enorme ricerca nel tempo.

Questa nuova opera, in un certo senso, è figlia di quel lavoro lì, di quei due dischi. È il risultato di una ricerca sonora che ci ha portato fino a “Il dominio della luce”. Quindi, un paio d’anni fa sono nate le prime composizioni. Da lì, piano piano, ci siamo interrogati su cosa farne: pubblicarle come semplice album strumentale, oppure provare a espandere l’esperienza, a trasformarla in qualcosa di più ampio. E così è nata l’idea di condividere la parte creativa con altri artisti, invitandoli a contribuire con il loro sguardo.

All’inizio il pensiero era: proviamo a fare un’indagine sulla luce, coinvolgendo autori e autrici che potessero restituirla con le parole. C’è chi ha scritto racconti, chi testi più poetici, chi brevi saggi o veri e propri pensieri. Alcuni hanno “recensito” l’album in maniera poetica. Le forme sono state le più varie, e tutte insieme hanno composto un libretto piuttosto unico nel suo genere: bizzarro, sconnesso, psichedelico, ma molto affascinante. Poi è arrivato Gianluigi Toccafondi, che ha illustrato il tutto, dando la pennellata finale: con i suoi meravigliosi dipinti è riuscito a unire musica e parole in un’unica visione.

È stata davvero un’opera di artigianato condiviso, un processo entusiasmante da costruire. Speriamo che per chi ascolterà e leggerà sarà altrettanto interessante entrarci dentro e trovare il proprio modo di fare esperienza di Il dominio della luce.

All’ascolto emerge chiaramente la capacità di questo disco di poter esser ascoltato in varie forme, sia leggendo il libro che lo accompagna, sia con un approccio dedicato, così da scoprirne nuove sfumature

Ce lo auguriamo davvero, perché alla base di tutto c’era proprio il desiderio di dare a questi brani una vera dignità. Non si tratta di esercizi tecnici, né di musica “per addetti ai lavori”. Non sono codici riservati a chi suona o comprende certi linguaggi musicali. Il nostro desiderio è che questo sia un disco che si possa ascoltare anche con leggerezza: durante una serata tra amici, magari anche in sottofondo. Ma se lo si vuole, ci si può immergere completamente. Basta un paio di cuffie per perdersi nelle sfumature, nei tocchi, nelle armonie, nei voicing. In quel suono che ci appartiene da anni, che abbiamo condiviso in tanti progetti altrui, e che oggi abbiamo voluto finalmente raccogliere in una forma nostra, dandogli una voce autonoma, un’identità compiuta. E da lì, chi ascolta è libero di immaginare qualunque storia. Vederci dentro qualunque film, qualunque serie, qualunque viaggio interiore. È bello anche semplicemente leggere i testi del libro e ascoltare la musica senza esserne distratti. Le due cose convivono, si alimentano a vicenda, ma non si sovrappongono.

E poi ci sono le immagini di Gianluigi Toccafondi, che con i suoi dipinti ti guidano in un universo visivo fatto di colori e forme evocative. Ma alla fine sei tu, ascoltatore, che devi metterci la quarta dimensione. Perché le prime tre — il suono, le parole, le immagini — le abbiamo trovate noi. La quarta, quella più importante, la devi mettere tu: tu che ascolti, che leggi, che ti perdi.

A conti fatti, mi sembra che questo disco sia, sotto molti aspetti, controcorrente rispetto alla maggioranza della musica di oggi, per cura e messaggio, oltre che per forma, quella strumentale. Il mondo della musica sembra sempre più dominato dalla parola

Siamo felice che tu lo percepisca così. Pensa che questo disco lo abbiamo pensato, composto e registrato due anni fa. Eravamo talmente fuori tempo — controcorrente, forse— che quasi sembrava fuori luogo pubblicarlo. E invece, in questi due anni, la sensazione che abbiamo è che si stia vivendo una sorta di nuova primavera per la musica strumentale.

Basta guardare agli Hermanos Gutiérrez, un duo sudamericano che fa solo musica strumentale e che sta riempiendo sale importanti in tutto il mondo. O i Khruangbin, una band americana fighissima, un trio che suona senza praticamente mai usare la voce. E poi, se ci pensiamo bene, l’artista italiano più ascoltato, seguito e guardato al mondo è Ludovico Einaudi. E la sua musica è completamente priva di parole.

Secondo me è una grande illusione collettiva quella che la musica strumentale sia marginale o poco presente nelle nostre vite. La verità è che ci siamo abituati a un sovraccarico di parole. Spesso inutili. Siamo rincoglioniti da un eccesso di linguaggio, quando in realtà certe emozioni, certi spazi interiori, si aprono meglio nel silenzio, o nella musica che non pretende di spiegarsi con le parole.

Colpiscono molto anche gli arrangiamenti dosati, il calore del suono. Alla faccia dell’overproduzione odierna… Come ci avete lavorato?

In fondo il cuore del discorso è proprio l’arrangiamento. Negli anni, abbiamo sviluppato una sorta di instant arrangement: un modo di auto-arrangiarci per essere completamente autosufficienti con due soli strumenti. Questo è sempre stato un po’ il nostro gioco: cercare di espandere la sonorità dei nostri strumenti per dare l’illusione all’ascoltatore di trovarsi dentro qualcosa di molto più complesso. Ma in realtà, siamo solo noi due.

È ciò che portiamo anche dal vivo: il nostro intento era essere il più potenti e “espansi” possibile usando solo le nostre due voci musicali, così da restituire quella stessa sensazione anche sul palco, senza dover aggiungere altro.

Poi, ovviamente, lavorando in studio ci siamo concessi qualche libertà. Essendo musicisti abituati a metter mano a più strumenti — anche per colonne sonore o altri progetti — ci siamo cimentati un po’ con tutto: dalla batteria ai synth, dal pianoforte alle chitarre. Ma in questo caso abbiamo scelto di restare nel mondo dell’acustico, dell’analogico, dei legni, delle corde.

Roberto ha aggiunto qualche tocco qua e là, magari una chitarra elettrica, un piano. Io ho fatto lo stesso, due linee di pianoforte, qualche dettaglio. Ma sono tutti interventi mirati, evocativi più che “produttivi”. Non si tratta di arrangiamenti classici: sono gesti sonori pensati per ampliare il piano emotivo di ciascun brano, non per costruirci sopra.

E alla fine, se togli tutto questo, resta l’essenza. Restiamo io e lui, in concerto. Ed è lì che il disco ritrova la sua forma più vera. E poi c’è una cosa importante da ricordare, che spesso si scopre solo col tempo o ascoltando tanta musica in giro. Più sono belli i suoni, più sono ripresi bene, e meno c’è bisogno di sovrapproduzione. Quando una chitarra, un violino, una batteria, un basso o una voce suonano davvero bene, non serve altro. Non c’è bisogno di aggiungere strati, effetti, sovrastrutture. Il suono parla da solo.

Quando invece ci troviamo di fronte a produzioni “over-produced”, iper cariche, spesso è perché all’origine c’è una mancanza. Una necessità di coprire, di mascherare. È un po’ come mettere tanto pepe su una pasta che, in fondo, non regge da sola.

di Federico Arduini

La Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!

Leggi anche

Carlos Santana collassa durante prove per il concerto: ricoverato

23 Aprile 2025
Attimi di paura per Carlos Santana, il celebre chitarrista rock, che è stato ricoverato in osped…

Niccolò Fabi e “Al cuore gentile”, nuovo brano dall’album in arrivo

22 Aprile 2025
Niccolò Fabi pubblica oggi, mercoledì 22 aprile, “Al cuore gentile”, offrendo una nuova, delicat…

Da oggi in cuffia, le uscite in musica di venerdì 18 aprile

18 Aprile 2025
Come ogni venerdì, la musica si rinnova: oggi le piattaforme di streaming si riempiono di nuove …

Pink Floyd At Pompeii, la magia torna al cinema

18 Aprile 2025
Dal 24 al 30 aprile sarà nei cinema “PINK FLOYD AT POMPEII – MCMLXXII”, in una versione rimaster…

Iscriviti alla newsletter de
La Ragione

Il meglio della settimana, scelto dalla redazione: articoli, video e podcast per rimanere sempre informato.

    LEGGI GRATIS La Ragione

    GUARDA i nostri video

    ASCOLTA i nostri podcast

    REGISTRATI / ACCEDI