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God Save the Queen

Sono diventati più buoni con la Regina solo negli ultimi tempi, lanciando pure la moneta commemorativa – la Pistol Mint Commemorative Coin che riprende l’artwork di God Save The Queen – per il Platinum Jubilee della Regina
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God Save the Queen

Sono diventati più buoni con la Regina solo negli ultimi tempi, lanciando pure la moneta commemorativa – la Pistol Mint Commemorative Coin che riprende l’artwork di God Save The Queen – per il Platinum Jubilee della Regina
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God Save the Queen

Sono diventati più buoni con la Regina solo negli ultimi tempi, lanciando pure la moneta commemorativa – la Pistol Mint Commemorative Coin che riprende l’artwork di God Save The Queen – per il Platinum Jubilee della Regina
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Sono diventati più buoni con la Regina solo negli ultimi tempi, lanciando pure la moneta commemorativa – la Pistol Mint Commemorative Coin che riprende l’artwork di God Save The Queen – per il Platinum Jubilee della Regina
Il regno di Elisabetta II si è intrecciato ovviamente alla produzione musicale inglese degli ultimi 50 anni. Da Mick Jagger a Paul McCartney, il coro del ricordo della sovrana è stato impetuoso, un flusso di tweet, post sui social anche dalla musica inglese e mondiale. Ecco, sarà difficile leggere invece il commosso pensiero di Johnny Rotten, simbolo – con il defunto Sid Vicious – dei Sex Pistols che 45 anni fa si sono presi gioco platealmente della Corona. God Save the Queen, il singolo – con lo stesso titolo dell’inno nazionale – che fece il debutto in radio nel maggio di 45 anni fa, era uno sberleffo. Uno schiaffo con il guanto a Buckingham Palace, all’immagine perfetta della Regina adorata dagli inglesi, sintetizzato nel volto deturpato della Sovrana sulla copertina del singolo. Il regno di Elisabetta II paragonato a quello di un regime fascista, l’irrisione di Buckingham Palace, per la stampa (e non solo) era troppo. I Pistols provarono a presentare il brano su un barcone sul Tamigi, la polizia intervenne prima del riff iniziale, tutti giù, 11 arresti. Il clima era quello, shock collettivo per l’offesa alla Regina, la Bbc si rifiutò di passare la canzone alla radio, diverse catene di negozi nel Regno Unito non piazzarono sugli scaffali quel singolo di stordente dissacrazione, l’essenza stessa del punk britannico. I politici si piazzarono in difesa di Elisabetta, il consigliere della Città di Londra, Bernard Brook, definì i Pistols come “antitesi degli esseri umani”. Ovviamente si ottenne la reazione opposta, il rigurgito dell’animo furioso dei giovani inglesi, perché il punk era diventato controcultura anche in letteratura, arte, moda, come il grunge negli Stati Uniti un ventennio dopo. Un controvento di ribellione che portò God Save the Queen al secondo posto della classifica dei singoli più venduti nel Regno Unito dietro a una hit di Rod Stewart. Ora l’era della ribellione selvaggia è passata, il punk nel frattempo è morto – e non da poco – e poco prima che la Regina Elisabetta morisse c’è stato anche il tempo della ristampa – in unica edizione – delle due edizioni originali del singolo dei Pistols. La prima fu distrutta ai tempi in 25mila copie, quelle rimaste sono state vendute negli anni a cifre altissime, la seconda versione, stampata da Virgin Records, vede il volto della Regina in copertina blu. E stavolta la ristampa definitiva del disco è finita al primo posto della classifica dei singoli nel Regno Unito. Di sicuro il “No future in England’s Dreaming” cantato dai Sex Pistols in riferimento alla Regina ha fatto un po’ acqua da tutte le parti, Elisabetta è andata avanti, adorata dal popolo britannico, per oltre 50 anni, mentre diversi gruppi punk di ispirazione anarcoide non ha mai dimenticato di inserirla nei propri pensieri. Oltre ai Pistols, Queen Elizabeth è stata la fortuna anche di altre band leggendarie. Spesso in chiave negativa, un bersaglio troppo facile cui mirare e destare attenzione. Nel 1986 gli Smiths, leggendaria band inglese, hanno raggiunto il punto più alto della sua produzione discografica con The Queen Is Dead, considerato l’album rock migliore del decennio nel Regno Unito. Un disco tutto per la Regina, ma in copertina ci è finito Alain Delon, immagine tratta da un film degli anni ‘60. Il singolo, dal titolo omonimo al disco, con i suoi passaggi sarcastici sulla Regina, sulla denigrazione del figlio Carlo, è la fotografia dell’anti monarchismo militante di Morrissey – il cantante della band inglese -, assai più marcato di quello dei Sex Pistols. Morrissey già l’anno precedente al disco interamente dedicato alla Sovrana cantò in Nowhere Fast che gli sarebbe piaciuto tirarsi giù i pantaloni davanti a Elisabetta. Sempre in zona Manchester, in versione anti-Regina si sono segnalati anche gli Stone Roses, che nel 1989 le dedicarono un minuto velenoso della ballad Scarborough Fair in cui il cantante Ian Brown cantava che non avrebbe trovato pace finché Elisabetta non avesse perduto quel trono. Insomma il rock ha sempre preso di mira la Corona. Solo i Beatles l’hanno trattata meglio, senza rinunciare a un po’ di irriverenza, con Her Majesty (1969, l’anno prima della fine dei Fab Four), dove McCartney canta di “Sua Maestà è una ragazza abbastanza carina, voglio dirle che l’amo un sacco, ma mi dovrei riempire di vino, un giorno sarà mia, oh yeah, un giorno sarà mia”. Sempre i Baronetti, invitati ogni anno a Buckingham Palace dal 1963 per show di beneficenza, hanno alimentato il mito del rapporto controverso con la Regina, come la storia dell’erba fumata nei bagni reali quando furono nominati baronetti. Ma ci sono altre eccezioni di qualità. Elton John aveva una venerazione per la Sovrana (e anche per Lady D), Freddie Mercury con i Queen terminava i concerti con corona e mantello. Di Nicola Sellitti

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