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Bruce Springsteen

In viaggio con Bruce Springsteen

In uscita venerdì su Disney+, il docufilm “Road Diary” non racconta solo il tour mondiale di Springsteen ma anche il mondo che nel 2022 tornò a respirare

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In uscita venerdì su Disney+, il docufilm “Road Diary” non racconta solo il tour mondiale di Springsteen ma anche il mondo che nel 2022 tornò a respirare

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In viaggio con Bruce Springsteen

In uscita venerdì su Disney+, il docufilm “Road Diary” non racconta solo il tour mondiale di Springsteen ma anche il mondo che nel 2022 tornò a respirare

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In uscita venerdì su Disney+, il docufilm “Road Diary” non racconta solo il tour mondiale di Springsteen ma anche il mondo che nel 2022 tornò a respirare

In uscita venerdì su Disney+, Road Diary è un documento non solo sulla preparazione dell’ennesimo, gigantesco tour mondiale di Bruce Springsteen e della E Street Band, ma su un mondo che nel 2022 tornò a respirare. È soprattutto, però, una testimonianza su un modo di fare musica destinato al tramonto.

No, non ci stiamo riferendo al rocker di Freehold, New Jersey, a nostro modesto avviso uno dei grandi poeti del XX secolo americano. Bruce lo ha detto in modo chiaro: “Non ci sarà mai un tour d’addio (i Farewell Tour commercialmente un po’ paraculo di tanti), andremo avanti finché ce la faremo”. Punto.
Ci riferiamo alla creazione musicale e a come interpretarne il valore, sull’onda della produzione e del consumo digitale delle arti espressive. La musica più di qualsiasi altra.

Guardare Road Diary riporta a un’epoca straordinaria e fondante. Quando fare musica, in modo specifico “album” e live, costituiva un processo meticoloso e affascinante dal punto di vista “industriale”, specchio fedele dei sentimenti e delle scelte personali dell’artista. Del proprio mondo di riferimento e di ciò che pensava della realtà e della possibilità di influenzarla. Senza nessun’ansia di giudizio, possiamo dire che oggi sia ancora così? Che le giovani star sentano questa forma di ispirazione e missione? Domande che vale almeno la pena porsi.

Bruce Springsteen si affacciò sulla scena musicale statunitense nei primissimi Settanta, a valle di un’epoca inimitabile. Concentrata in una manciata di anni fra lo shock collettivo dell’apparizione dei Beatles e l’esplosione del grande rock americano legato alla controcultura dal 1965 in avanti. La somma di talenti e capolavori di quelle poche stagioni è impressionante e accende più di un rimpianto.

Il docufilm in onda su Disney+, come ogni concerto di Bruce, è un viaggio in cui quasi nessuna tappa è esclusa: quella puramente rock, magari più folk, sperimentale e le venature pop. Pensate a questi due estremi: fra l’album d’esordio (Greetings from Asbury Park) e quello di prima maturazione (Born to Run), passano due anni e mezzo. Artisticamente parlando nulla, ma sono i tempi che trascinarono i Beatles dell’età dell’innocenza ai capolavori della maturità o il già citato rock americano dall’esplosione di metà Sessanta a Woodstock.

Al contempo, fra Born to Run e oggi passano 49 anni, un’eternità lungo la quale tanti protagonisti di allora hanno smesso, fatto tutt’altro, sono tornati insieme, hanno ripetuto stancamente se stessi o purtroppo non ci sono più. Uno dei momenti più intensi di Road Diary è proprio l’interpretazione di Nightshift dei Commodores in ricordo degli amici della band scomparsi, Danny Federici e il grande Clarence Clemons.

Bruce Springsteen c’è sempre stato, facendo cose diverse. Perché se il suo smisurato pubblico è cresciuto con lui non è certo rimasto uguale e l’antico rocker ha musicalmente sperimentato di tutto in un viaggio che non dà mai la sensazione di far intravedere la fine.

Di Fulvio Giuliani

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