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le canzoni di jacques brel

Quel sogno impossibile di Jacques Brel

Ripercorriamo il percorso artistico del cantautore belga Jacques Brel, che con le sue opere ci ricorda come il ricongiungersi a quella «stella inaccessibile» sia il sogno impossibile, il segreto e il fine di ogni uomo.
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Quand’era adolescente, Jacques Brel studiò in una scuola cattolica e fece parte del gruppo
scout di Schaerbeek, un Comune nei pressi di Bruxelles dove nacque nell’aprile del 1929. Il suo destino era, però, lontano dal Belgio: negli anni Cinquanta, infatti, si trasferisce a Parigi e lì raggiunge il successo ottenendo il disco d’oro per la canzone “Le Diable (ça va)”, contenuta nell’album d’esordio “Jacques Brel et ses chansons” (1954). Tre anni più tardi avviene la consacrazione con “Quand on n’a que l’amour” e quei suoi versi finali di pace cosmica che preannunciano i movimenti di controcultura e il Sessantotto: «Quando si ha soltanto l’amore / per parlare ai cannoni / e nient’altro che una canzone / per convincere un tamburo, / allora soltanto con / la forza di amare / avremo nelle mani / il mondo intero, amici».

Poeta engagée, impareggiabile paroliere ma anche attore e regista, Brel è universalmente riconosciuto – assieme a Georges Brassens – come il più grande cantautore francofono del secolo scorso, capace di utilizzare melodie molto diversificate tra loro e soprattutto di passare con eguale vigore espressivo dall’analisi della società ai margini (“Jef”, “La Chanson de Jacky”) a un sentimentalismo dolce e corrosivo (“Mathilde”, “La Chanson des Vieux Amants”, “Ne me quitte pas”) fino alla fierezza patriottica d’afflato civile (“La la la”). Enrico De Angelis – nell’articolo “Le mal de Paris. Influenza della canzone francese su quella italiana”, apparso sulla rivista “Trasparenze” nel 2004 – dichiara con giusta enfasi: «In Paoli, Tenco, Gaber, Endrigo, Lauzi, De André, Guccini, Vecchioni e in altri ancora c’è molto o un po’ di Brel».

Come per un cavaliere del ciclo arturiano alla strenua ricerca del Santo Graal, per lo chansonnier ciò che conta davvero è la quête. Ogni cosa si compie nel viaggio stesso dei sensi e dello spirito. Forse residuo mnestico della sua formazione cattolica (nella struggente “Mon enfance” dice: «E la mia infanzia è scoppiata / quando arrivò l’adolescenza / e il muro di silenzio / un mattino si spezzò: / fu il primo fiore / e la prima ragazza, / la prima graziosa / e la prima paura»), la quête si manifesta nella poetica breliana attraverso metafore immaginifiche e altamente concentrate, però sempre codificate in un linguaggio semplice, quotidiano.

La modernità dei suoi testi, graffiati dalla erre arrotata e dalla voce profonda del fumatore, risiede proprio nella descrizione del desiderio in tutte le sue varianti, come accade nell’omonima canzone “La quête”, dai toni larvatamente surrealistici: «Sognare un sogno impossibile, / recare il dolore degli addii, / bruciare di una febbre probabile, / andarsene là dove non va nessuno. / Amare fino a spezzarsi: amare, / anche troppo, anche male. / Cercare, senza forza né armi, / di raggiungere la stella inaccessibile. / Questa è la mia strada, / seguire la stella, / non m’importano le chances, / non m’importa il tempo, / o la disperazione». Con una dizione quasi leopardiana Brel – sepolto accanto a Gauguin nelle Isole Marchesi – ci ricorda che il ricongiungersi a quella «stella inaccessibile» è sogno impossibile e il segreto e il fine dell’uomo.

Di Alberto Fraccacreta

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