Jeff Buckley: una goccia pura in un oceano di rumore
Un ricordo della voce dell’indimenticabile Hallelujah. Scomparso giovanissimo per una tragica fatalità, ultimo tassello di congiunzione tra un cantautorato che non c’era più e il rock del nuovo millennio.
Jeff Buckley: una goccia pura in un oceano di rumore
Un ricordo della voce dell’indimenticabile Hallelujah. Scomparso giovanissimo per una tragica fatalità, ultimo tassello di congiunzione tra un cantautorato che non c’era più e il rock del nuovo millennio.
Jeff Buckley: una goccia pura in un oceano di rumore
Un ricordo della voce dell’indimenticabile Hallelujah. Scomparso giovanissimo per una tragica fatalità, ultimo tassello di congiunzione tra un cantautorato che non c’era più e il rock del nuovo millennio.
Un ricordo della voce dell’indimenticabile Hallelujah. Scomparso giovanissimo per una tragica fatalità, ultimo tassello di congiunzione tra un cantautorato che non c’era più e il rock del nuovo millennio.
Sarebbero stati 55 gli anni di Jeff Buckley oggi, se in quella sera del maggio 1997 non avesse deciso di tuffarsi in un affluente del Mississippi come aveva fatto altre volte. L’ultima cosa che fece fu canticchiare, mentre nuotava tranquillo, il ritornello di “Rock n Roll” dei Led Zeppelin. Poi un traghetto che passava sul fiume, forse la corrente, una risacca, e di lui non si seppe più nulla fino a quando il suo corpo non fu ritrovato sotto un ponte, tra i rami, vicino a Memphis. Il Mississippi e Memphis, il blues e il rock.
Quando si ripercorrono le carriere di artisti come quella di Buckley, stroncate troppo presto, si tende spesso e volentieri a volerci ricamare sopra, a volerli descrivere e liquidare come artisti maledetti. Come? Ricercando messaggi e tracce nella loro produzione musicale, nei testi e nelle atmosfere delle loro canzoni, rigorosamente a posteriori. Basterebbe pensarci un attimo per capire quanto sbagliato sia prendere automaticamente per autobiografico quello che un artista canta, considerare quell’universo che viene messo in scena come un doppio del suo universo interiore.
L’equazione è più spesso fallace che veritiera. Nel caso di Jeff poi, morto dopo aver dato alla luce una pietra miliare come “Grace”, perché fu il suo primo e ultimo album. La granitica certezza che non sarebbe uscito con un album completamente diverso, dalle tonalità allegre e cantando di tutt’altro, nessuno la può avere. Disse Bono di Buckley che fu come “una goccia pura in un oceano di rumore”. La metafora calza.
La musica di Buckley
Erano gli anni del grunge, del gridare in faccia al mondo il proprio disgusto e disagio, tra chitarre distorte e sonorità cupe, quando uscì “Grace”. Di quell’universo Jeff prese l’attitudine e lo seppe declinare in un sound figlio di stili diversi, dal blues rock dei Led Zeppelin, scoperto grazie al patrigno, fino al folk che gli scorreva nelle vene: Il padre Tim Buckley, grande folk Singer, incontrato poco più di una manciata di volte e morto d’overdose nel ’75, rimase nella sua vita uno spettro con cui dovette confrontarsi sempre. Dalla title track all’immortale versione di “Hallelujah”, da “Mojo Pin” a “Last Goodbye”, Grace si dimostra all’ascolto ancora oggi come un disco senza tempo, con l’immortale voce di Jeff a farci chiedere una volta di più “chissà cosa avrebbe potuto fare ancora”. Di certo c’è che fu l’ultimo tassello di congiunzione tra un cantautorato che già non esisteva più e la musica che sarebbe venuta dopo. di Federico ArduiniLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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