L’algoritmo al posto del cuore
Perché se continuiamo a chiamare “progresso” ogni scorciatoia disumana, allora più che verso il futuro stiamo correndo a rotta di collo verso un’epoca di copia-incolla shakerato

L’algoritmo al posto del cuore
Perché se continuiamo a chiamare “progresso” ogni scorciatoia disumana, allora più che verso il futuro stiamo correndo a rotta di collo verso un’epoca di copia-incolla shakerato
L’algoritmo al posto del cuore
Perché se continuiamo a chiamare “progresso” ogni scorciatoia disumana, allora più che verso il futuro stiamo correndo a rotta di collo verso un’epoca di copia-incolla shakerato
Nel gran frastuono quotidiano che circonda l’universo dell’intelligenza artificiale – tra novità, conseguenze, battaglie legali e proclami – ci si trova sempre più spesso davanti a una specie di guerra di trincea. Da un lato chi, con cautela e senso critico, analizza ciò che accade, alzando il dito per segnalare le crepe e le potenziali ricadute etiche, economiche e sociali; dall’altro, chi invece si lascia trascinare dall’entusiasmo, accettando tutto come se fosse una pioggia estiva: «Non si può fermare il progresso», «Non si può arginare la tecnologia». Manco fossimo tornati ai tempi dei roghi per le streghe o dell’oscurantismo.
Le argomentazioni dei paladini acritici dell’AI ‘libera’ sono spesso fragili, quando non completamente campate in aria. Che senso ha, ad esempio, tirare in ballo un’etichetta discografica per giustificare un’attrice creata dall’intelligenza artificiale? Dietro uno sfondo digitale c’è un artista in carne e ossa che lo ha ideato, dietro un personaggio creato da zero per i tanti film di supereroi ci sono attori, doppiatori, professionisti veri. E i paragoni con l’arte romana («Anche i romani copiavano i greci, così come l’AI copia l’uomo») suonano semplicemente ridicoli: gli artisti romani copiando crearono un linguaggio nuovo, l’intelligenza artificiale copiando svuota l’originale del suo senso, ne mina il valore e ne mette in crisi la sopravvivenza.
E poi c’è la musica, altro campo di battaglia. Dopo mesi di brani generati da algoritmi che spacciavano voci sintetiche per artisti reali (di cui volutamente non abbiamo scritto per evitare di fare loro pubblicità), finalmente Spotify ha deciso di mettere un argine, aggiornando le proprie regole interne e includendo nel perimetro dello spam anche i cloni vocali generati dall’intelligenza artificiale, i deepfake e le produzioni musicali automatizzate. Nel giro di qualche settimana o mese la piattaforma introdurrà una nuova versione del suo sistema antispam, pensato per individuare e bloccare frodi e comportamenti ingannevoli.
Un aggiornamento tutt’altro che marginale: nell’ultimo anno, l’algoritmo di controllo di Spotify ha già rimosso circa 75 milioni di brani che non rispettavano gli standard qualitativi imposti dalla società. Un gesto per alcuni tardivo, ma necessario e da incentivare: qualcuno ha ricordato che, dietro una canzone, dovrebbe esserci ancora un essere umano.
Perché se continuiamo a chiamare “progresso” ogni scorciatoia disumana, allora più che verso il futuro stiamo correndo a rotta di collo verso un’epoca di copia-incolla shakerato. Quel che è prodotto dall’AI sia chiaramente indicato come tale. E sia la gente a decidere se ascoltare un brano, vedere un film, leggere un libro prodotto o meno con l’aiuto dell’intelligenza artificiale.
Ben venga invece l’AI quando è un propellente, un acceleratore di ispirazione e un aiutante del maestrante, delle aziende o dell’artista. Purché ci sia un confine, purché non lo sostituisca in nome di una folle corsa verso non si sa bene cosa o in nome di una presunta necessità di contrarre tempi e costi per aumentare profitti e foraggiare un sistema che non può durare. Perché, viceversa, quale altro vantaggio si avrebbe nello spingere una canzone generata dall’AI? In medicina le applicazioni possono essere importantissime, così come in molteplici altri ambiti.
Ma nell’arte, quale sarebbe il vantaggio? E forse è proprio qui la linea sottile che dobbiamo imparare a tracciare: l’intelligenza artificiale può imitare, ma non può sentire. Può creare armonie, ma non può provare ciò che le genera. Nell’arte il vero motore non è produrre di più o più velocemente, ma tornare a ricordare perché creiamo. Finché ci sarà un cuore dietro l’opera, nessun algoritmo potrà davvero sostituirlo.
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- Tag: musica, spettacolo
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