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Liberarsi con l’amore. Nei cinema “Love” di Dag Johan Haugerud

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Un viaggio soave e carnale nell’intimità contemporanea. “Love” di Dag Johan Haugerud è un film romantico e anticonvenzionale

Liberarsi con l’amore. Nei cinema “Love” di Dag Johan Haugerud

Un viaggio soave e carnale nell’intimità contemporanea. “Love” di Dag Johan Haugerud è un film romantico e anticonvenzionale

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Liberarsi con l’amore. Nei cinema “Love” di Dag Johan Haugerud

Un viaggio soave e carnale nell’intimità contemporanea. “Love” di Dag Johan Haugerud è un film romantico e anticonvenzionale

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Un viaggio soave e carnale nell’intimità contemporanea. “Love” di Dag Johan Haugerud è un film romantico e anticonvenzionale. In questo secondo capitolo della “Trilogia delle relazioni” – tra “Dreams” (già Orso d’Oro alla Berlinale) e “Sex” (che in Italia deve ancora uscire) – il regista norvegese mette in scena una Oslo ovattata. Dove anche l’estate sembra inverno e i traghetti attraversano il fiordo insieme al fragile ponte tra solitudine e desiderio.

“Love” è un film che parla a bassa voce. Ma con lucida chiarezza di esistenze senza fissa dimora. In viaggio di porto in porto, di persona in persona. Tor (impersonato da Tayo Cittadella Jacobsen) è un infermiere gentile, vagabondo notturno in cerca di incontri fugaci e connessioni emotive. Marianne (interpretata da Andrea Bræin Hovig) è invece una dottoressa razionale, quasi scettica, che cerca l’amore come si insegue una chimera: con speranza e frustrazione. Si incontrano ogni giorno (lavorano nello stesso ospedale) ma i loro dialoghi rivelano mondi interiori complessi, fragili, intensi. A unirli non è il desiderio né l’amore romantico ma qualcosa di più sottile: la volontà comune di immaginare relazioni altre, oltre la monogamia, i ruoli, le aspettative.

Haugerud riprende le fondamenta del cinema intimo: i dialoghi – spesso lunghi e sempre funzionali – si muovono con la stessa grazia dei suoi personaggi, esistenze nomadi non per geografia ma per emozioni. La regia non impone mai un punto di vista moralistico, forse neanche morale. Per questo, seppur con una visibile influenza del cinema di Woody Allen ed Éric Rohmer, non arriva a bucare la patina della tenerezza con una realtà più grezza: rimane un’utopia dolce, un’idea di libertà che si incarna nei gesti e nelle confessioni sottovoce, nelle risate tra due persone che si comprendono anche se non si amano.

C’è spazio anche per l’ironia: gentile, quasi timida, come un sorriso tra sconosciuti che si sfiorano su un tram. Le inquadrature statiche, i movimenti di macchina appena percettibili e la fotografia pastello curata da Cecilie Semec ricordano Wes Anderson, ma qui tutto è meno giocoso, più rarefatto, più nordico. C’è il silenzio come parte integrante della composizione e un’osservazione quasi medica del corpo. Tra ritrosia e desiderio di toccare, tra piacere e senso di colpa, tra app di incontri, solitudine ed empatia.

“Love” è un lungometraggio che si muove con grazia su questioni complesse: la fedeltà, la libertà, la corporeità, la paura, l’eros. Più domande che risposte. Non cerca di rappresentare la realtà, ma la possibilità: come sarebbe vivere se ognuno si ascoltasse davvero. Se l’amore non fosse solo un finale felice ma un viaggio esplorativo e il sesso un linguaggio da reinventare. A emergere è soprattutto una malinconia tutta scandinava, quella che Olivia Laing chiama «città sola»: la metropoli che connette e isola, che offre tutto ma toglie l’essenziale. E proprio in questo contesto l’incontro tra Marianne e Tor – così ordinario e così radicale – diventa un gesto sottotraccia e sovversivo: due persone che si raccontano senza maschere, in un mondo di avatar e algoritmi.

Haugerud costruisce il suo film senza alcun melodramma, alcuna retorica. Sono soltanto persone che si osservano e si ascoltano, alla ricerca di un modo per cercare di fare del bene a sé stessi, senza ferire l’altro. “Love” non è un film sull’amore, quanto un film sui modi di amare. È un invito a ripensare il desiderio come spazio di cura e la libertà come esercizio quotidiano. Sedersi su quel traghetto notturno insieme a Marianne e Tor, mentre fuori tutto è buio e silenzioso. E arrivare così in un nuovo porto.

di Edoardo Iacolucci

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