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Luigi Viva racconta De André: amicizia, jazz e memoria

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Ideato e diretto da Luigi Viva, “Viva De Andrè” è un vero e proprio concerto-racconto. Ne abbiamo parlato con Viva

Luigi Viva racconta De André: amicizia, jazz e memoria

Ideato e diretto da Luigi Viva, “Viva De Andrè” è un vero e proprio concerto-racconto. Ne abbiamo parlato con Viva

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Luigi Viva racconta De André: amicizia, jazz e memoria

Ideato e diretto da Luigi Viva, “Viva De Andrè” è un vero e proprio concerto-racconto. Ne abbiamo parlato con Viva

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“Viva De André” è attualmente il più importante spettacolo nazionale dedicato alla musica di Fabrizio De André, portato in tour da sette anni con un approccio originale: i brani dell’artista genovese vengono riarrangiati in chiave jazz, dando nuova vita a un repertorio che continua a parlare al pubblico di oggi.

Ideato e diretto da Luigi Viva, lo spettacolo è un vero e proprio concerto-racconto. Sul palco si alternano musica jazz dal vivo, narrazione, immagini e preziose registrazioni inedite di interviste a De André, che permettono di restituire un ritratto più intimo e autentico del grande cantautore.

Con gli arrangiamenti firmati da Luigi Masciari, chitarrista e compositore di grande esperienza, lo spettacolo continua il suo viaggio in tutta Italia. Le prossime date in programma sono:

  • 17 agosto – Piazza Castello, Castelbuono (Palermo) – Jazz Festival, ore 21.30, ingresso libero
  • 12 settembre – Arena Molini Marzoli, Torre del Greco (Napoli) – Devozioni Festival, ore 21.00, ingresso libero

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Luigi Viva per farci raccontare com’è nato questo progetto, il suo legame personale con Fabrizio De André e cosa significa oggi portare la sua voce e il suo pensiero

Cominciamo dall’inizio: come hai conosciuto Fabrizio De André e com’è nato il vostro rapporto personale?

All’inizio direi che ci siamo conosciuti nel 1975, la prima volta che è venuto a suonare a Roma. Quella sera siamo andati a cena insieme perché ero amico dei New Trolls che lo accompagnavano nel suo primo tour. Da lì è nata un’amicizia basata principalmente sulla comune passione per l’agricoltura. Ogni volta che ci vedevamo parlavamo tanto di agricoltura, politica, un po’ anche di anarchia, ma pochissimo di musica. Poi, nel 1990, dopo la pubblicazione di un mio libro, mi è venuta l’idea di scrivere una biografia su di lui. In quel clima politico così grigio, mi sembrava quasi un dovere confrontarmi con la sua figura. Tutto è nato da un’intervista che lui fece a Vincenzo Mollica all’uscita dell’album “Le nuvole“, dove parlava dell’influenza che il potere ha sulla vita delle persone.

Guarda caso, proprio il giorno prima dell’inizio dell’inchiesta “Mani Pulite”, a casa sua a Milano, mi diede l’autorizzazione per procedere con questo studio, che avrebbe riguardato sia la sua vita che il suo stile artistico. Cominciai così a ripercorrere tutta la sua esistenza grazie alle sue indicazioni: intervistai i compagni di scuola, gli amici di Revignano D’Asti dove aveva vissuto durante la guerra, i musicisti, Paolo Villaggio – suo grande amico – fino a un’analisi dettagliata dei dischi. Lui corresse gran parte del lavoro, supervisionò anche il piano dell’opera. È stato un rapporto molto intenso e, per certi versi, anche molto emozionante.
Era una persona di grande affettuosità, generosa e molto appassionata di jazz. Ecco perché ho pensato al Jazz per lo spettacolo: mi sembrava una scelta meno scontata, più difficile, ma proprio per questo interessante.
Inizialmente avevo pensato a Danilo Rea, ma a causa dei suoi impegni è stato lui stesso a indirizzarmi verso Luigi Masciari, chitarrista e arrangiatore di altissimo livello. Pensate che il suo ultimo disco è stato selezionato in due categorie ai Grammy. Con lui abbiamo cominciato a lavorare su quali brani scegliere e riarrangiare in chiave jazz.

Tra l’altro, Fabrizio stava lavorando a un disco, “I Notturni”, che avrebbe dovuto essere diviso in tre suite, una delle quali proprio in chiave jazz, ispirata all’opera di Jimmy Giuffrè. Il primo disco jazz che Fabrizio acquistò fu proprio quello del trio di Giuffrè, nel 1956. Quando era giovane suonava in un gruppo a Genova, anche con Luigi Tenco. Quindi il jazz era già parte della sua formazione musicale.
A me piaceva l’idea di un progetto che non prevedesse la voce: nello spettacolo e nel disco, infatti, non c’è un cantante.

Questa scelta della mancanza di voce è molto interessante. Può essere un’occasione per avvicinarsi a De André da una prospettiva nuova, anche grazie agli arrangiamenti jazz. Come avete selezionato i brani da includere, considerando la vastità del suo repertorio?

Le canzoni sono state scelte in modo abbastanza libero. Ho lasciato molta autonomia a Luigi Masciari, indicandogli però alcuni punti fermi, come “La guerra di Piero” per il suo forte messaggio antimilitarista, oppure “Il Pescatore“.

Le canzoni si intrecciano al mio racconto e a tracce audio di Fabrizio stesso. Lo spettacolo gioca molto sugli opposti: da un lato l’assenza della sua voce, perché Fabrizio non c’è più e non può cantare per noi, dall’altro la sua voce che invece riappare, viva, in alcuni audio, alcuni inediti, tratti da interviste che gli feci, altri concessi gentilmente dalla Fondazione De André.

Mi sembra che questi audio offrano anche un ritratto più umano di De André, forse più autentico rispetto a quello pubblico

Assolutamente. In alcune registrazioni canticchia, oppure racconta un aneddoto che ci fa scoppiare a ridere c’eravamo io, lui e Dori Ghezzi. Questo aiuta a restituire anche il lato più personale e divertente di Fabrizio, che non era affatto solo la figura cupa e pensierosa che molti immaginano.

Anche Dori ha ascoltato questi materiali, ne ha valutato la qualità e mi ha dato il consenso per usare alcuni brani rispetto ad altri. Alcuni estratti provengono da concerti poco conosciuti, non dalle raccolte più diffuse, quindi hanno anche un valore “inedito” per chi ascolta.

A detta di molti, soprattutto dei giovani che vengono allo spettacolo, proprio questi momenti, quando la sua voce arriva nel buio, sono quelli che colpiscono di più.

Immagino anche per te sia un viaggio personale, ogni volta

Sì, molto. A volte, mentre racconto, emergono ricordi personali che non avevo previsto e mi emoziono. Mi porto sempre dietro una scaletta, ma spesso la arricchisco o la modifico. Cerchiamo sempre di tenere lo spettacolo vivo, anche grazie all’affiatamento con i musicisti, che sono tutti di altissimo livello: Francesco Bearzatti al sax, Alessandro Gwis al piano, Pietro Iodice alla batteria e ovviamente Luigi Masciari.

Lo spettacolo non è recitato, non è teatrale: è un racconto vissuto. Mi hanno detto che la forza sta proprio nel fatto che è autentico, come se fossimo in salotto. Questo crea un rapporto diretto con il pubblico, che ascolta con molta attenzione.

Prima hai citato i giovani e mi hai anticipato: penso che progetti come questo siano fondamentali per avvicinarli alla musica di De André. I suoi testi, i suoi messaggi, sono ancora estremamente attuali, forse anche più di prima.

Hai ragione. Purtroppo oggi molti artisti italiani evitano di prendere posizione. L’impegno, come in De André, non deve essere urlato: può essere sottile, come il suo, quasi socratico. Ma in certi momenti storici è importante farsi sentire.

Quanto ai giovani, resto spesso sorpreso. Dopo lo spettacolo, nel backstage, vengono a parlarmi: sono pochi, ma sono menti brillanti. Ti fanno ben sperare. Sono ragazzi curiosi, che cercano in profondità, che ascoltano De André, Bob Dylan, Leonard Cohen… Non si fanno trascinare dalla massa.

E il messaggio che mi ha lasciato Fabrizio, quello più importante, è proprio questo: non fermarsi alle apparenze, scavare dietro le cose, cercare la verità, usare la cultura come unico vero strumento di libertà.

Lui stesso, in una delle nostre ultime telefonate, mi disse che si preoccupava per i giovani e che voleva che il suo prossimo tour fosse più “divulgativo”. Quando Feltrinelli mi propose di pubblicare la biografia in edizione economica, pensai subito a quelle parole. L’edizione economica la possono comprare tutti, anche i ragazzi. E forse questo è il modo più bello per onorarlo.

di Federico Arduini

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